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ALTALEX NEWS


venerdì 6 novembre 2009

Anche il bacio o il palpamento per gioco integra il reato di violenza sessuale

Anche il bacio o il palpamento per gioco integra il reato di violenza sessuale
Cassazione penale , sez. III, sentenza 12.10.2009 n° 39718


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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE
Sentenza 17 giugno - 12 ottobre 2009, n. 39718
Svolgimento del processo
Motivi della decisione
OSSERVA
1) Con sentenza del 21.10.2008 la Corte di Appello di Venezia confermava la sentenza del GIP del Tribunale di Venezia in data 25.10.2005, con la quale B.E., previo riconoscimento della circostanza attenuante di cui all'art. 609 bis c.p., u.c. e delle circostanze attenuanti generiche ed applicata la diminuente per la scelta del rito, era stato condannato alla pena di mesi 10 di reclusione per il reato di cui all'art. 609 bis c.p. in danno di Bo.Ba.; pena sospesa.
Dopo aver richiamato la ricostruzione della vicenda operata dal GIP (la Bo. era stata assalita improvvisamente mentre era intenta, nel locale in cui lavorava, alla mescita del vino al tavolo, dove con alcuni amici sedeva il B., il quale mettendole le mani sui glutei l'aveva attirata a sè facendola sedere sulle sue ginocchio, afferrandole e palpeggiandole i seni), riteneva la Corte che non vi fosse stato alcun uso distorto dei poteri, riconosciuti al giudice dall'art. 441 c.p., comma 5, nell'acquisizione delle dichiarazioni testimoniali della parte offesa. Secondo la Corte territoriale infatti l'art. 441 c.p., comma 5 introduce nel rito abbreviato, al pari di quanto previsto per il dibattimento dall'art. 507 c.p.p., un meccanismo a tutela dei valori costituzionali di legalità che presiedono all'esercizio dell'azione penale. Il principio dispositivo ha nel processo soltanto una funzione espansiva del potere della parti ma non preclusiva dell'accertamento dei fatti.
Tanto premesso, riteneva la Corte assolutamente attendibile la versione dei fatti fornita dalla parte offesa, la quale, se avesse avuto intenti calunniatori, non si sarebbe di certo azzardata a presentare querela citando come testimoni i presenti (amici dell'imputato), i quali avrebbero potuto smentirla.
Non attendibili apparivano, invece, le dichiarazioni dei predetti i quali, contraddittoriamente, avevano palesemente cercato di ridimensionare il gesto dell'amico, precisando che si era trattato di uno scherzo.
Infine, secondo la Corte territoriale, non c'era dubbio alcuno che la condotta posta in essere dall'imputato rientrasse nella nozione di atto sessuale, inteso in senso oggettivo, come aggressione alla sfera sessuale del soggetto passivo.
2) Propone ricorso per cassazione il B., a mezzo del difensore, denunciando con il primo motivo la violazione di legge in relazione all'art. 178 c.p.p., lett. c) o art. 191 c.p.p. ovvero sollevando questione di illegittimità costituzionale dell'art. 441 c.p.p., comma 5.
Una lettura costituzionalmente orientata di tale norma non può che far ritenere che il giudice possa esercitare i poteri di integrazione probatoria soltanto se necessario. Una diversa lettura violerebbe il principio del giudice terzo ed imparziale e contrasterebbe con gli artt. 24, 11 e 3 Cost..
Secondo la proposta interpretazione dell'art. 441 c.p.p., comma 5 non può che competere al giudice di appello il controllo del requisito della necessità di acquisizione dei nuovi elementi probatorii con possibile alternativa sanzione processuale di nullità ex art. 178 c.p.p. oppure di inutilizzabilità ex art. 191 c.p.p. del materiale acquisito.
Non c'è dubbio che la contraddittorietà probatoria rilevata dal GIP per disporre l'esame della parte offesa, lungi dal costituire motivo per esercitare i poteri di cui all'art. 441 c.p.p., comma 5, avrebbe dovuto portare all'assoluzione dell'imputato.
Non prevedendo tale norma il diritto alla controprova, una diversa (rispetto a quella proposta) interpretazione non si sottrarrebbe alla eccepita incostituzionalità.
Con il secondo motivo denuncia il vizio di mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione. Con i motivi di appello era stata dedotta la completa inattendibilità della parte offesa e, per contro, la piena attendibilità dei testi in ordine alle modalità della condotta posta in essere dal B.; la motivazione della sentenza tace completamente su tali rilievi. Non vi è prova di palpeggiamenti dei glutei e dei seni.
Con il terzo motivo deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione all'art. 609 bis c.p.. Non qualsiasi contatto con zona erogena costituisce atto sessuale.
A seguito del gesto scherzoso del ricorrente che attirò a sè la p.o. vi fu solo un contatto glutei-ginocchio che palesemente non può essere qualificato come atto sessuale.
Con il quarto motivo denuncia il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell'elemento psicologico del reato. Non vi fu alcuna coartazione della libertà di autodeterminazione sessuale, avendo l'imputato agito con intento scherzoso (tale atteggiamento esclude il fine di concupiscenza).
Chiede, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata.
3) Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato.
3.1) Quanto all'eccezione di nullità e/o inutilizzabilità del materiale acquisito dal GIP a seguito della disposta integrazione probatoria, venendo denunciata la violazione di norme processuali il giudice di legittimità è giudice anche del fatto.
Tanto premesso, rileva, innanzitutto, il Collegio che il ricorrente parte da un presupposto erroneo e cioè che le affermazioni della Bo., contenute nell'atto di querela, fossero state smentite dai testi.
Il Gip, nel disporre l'integrazione probatoria evidenziava che la Bo. non era stata sentita a s.i.t. in sede di indagini preliminari e che, comunque, appariva necessario esaminare la predetta, per la delicatezza della contestazione, essendo emerse "circostanze non propriamente collimanti con quanto illustrato nell'atto di querela".
La presenza di circostanze non collimanti non significava ovviamente che vi fosse un contrasto insanabile, tale da giustificare una pronuncia assolutoria ex art. 530 cpv. c.p.p. per contraddittorietà degli elementi probatori acquisiti.
L'inesistenza di siffatto presunto contrasto viene ribadita, come si vedrà meglio in seguito, dalla Corte territoriale, secondo cui i testi addotti dall'imputato non avevano affatto smentita la ipotesi accusatoria, essendo piuttosto le loro dichiarazioni evasive (soprattutto in ordine alle frasi pronunciate dal B.) e contrastanti tra di loro.
Essendo utilizzabili tutti gli atti legittimante acquisiti nella fase delle indagini preliminari, non c'è dubbio alcuno che potesse essere valutato come fonte di prova il contenuto dell'atto di querela, che, come si è visto, non era stato affatto smentito dall'altro materiale probatorio acquisito.
La decisione di disporre la integrazione probatoria ex art. 441 c.p.p., comma 5, lungi dal "danneggiare" l'imputato, si risolveva quindi in una indubbia garanzia difensiva, venendo la Bo. sentita in contraddittorio, con la possibilità per la difesa di procedere al controesame della stessa e di far emergere, anche attraverso il meccanismo delle contestazioni, la inattendibilità del contenuto dell'atto di querela.
3.1.1) Ha evidenziato la Corte territoriale che l'art. 441 c.p.p., comma 5 introduce nel rito abbreviato un meccanismo analogo a quello previsto dall'art. 507 c.p.p. per il dibattimento a tutela dei valori costituzionali di legalità che presiedono all'esercizio dell'azione penale.
In relazione specificamente all'art. 507 c.p.p. la Corte Costituzionale, nel respingere l'eccezione di incostituzionalità di detta norma, assumeva "che i giudici rimettenti muovevano da una concezione alla stregua della quale il nuovo codice processuale non tenderebbe alla ricerca della verità ma solo ad una decisione correttamente presa in una contesa dialettica tra le parti, secondo un astratto modello accusatorio nel quale un esito vale l'altro, purchè correttamente ottenuto. E' ben vero che l'esigenza di accentuare la terzietà del giudice - perciò programmaticamente ignaro dei precedenti sviluppi della vicenda procedimentali - ha condotto ad introdurre, di massima, un criterio di separazione funzionale delle fasi processuali, allo scopo di privilegiare il metodo orale di raccolta delle prove, concepito come strumento per favorire la dialettica del contraddittorio e la formazione nel giudice di un convincimento libero da influenze pregresse. Ma tale opzione metodologica non ha fatto trascurare che fine primario ed ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità, e che ad un ordinamento improntato al principio di legalità, nonchè al connesso principio di obbligatorietà dell'azione penale non sono consone norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione. Il potere conferito al giudice dall'art. 507 c.p.p. è, dunque, un potere suppletivo, ma non certo eccezionale. La configurazione del siffatto potere come eccezionale, e quindi da escludere in caso di decadenza o inattività delle parti, discende, nella logica presupposta dai giudici remittenti, dall'assunzione dell'immanenza del nuovo codice, come conseguenza della scelta accusatola, di un principio dispositivo in materia di prova. Si tratta, però, di un assunto che non trova riscontro nè nei principi della delega nè nel tessuto normativo concretamente disegnato nel codice. Il legislatore delegante ha cioè esattamente considerato, in armonia con l'eliminazione delle disuguaglianze di fatto posto dall'art. 3 Cost., comma 2, - che la parità della armi delle parti normativamente enunciata può talvolta non trovare concreta verifica nella realtà effettuale, sì che il fine della giustizia della decisione può richiedere un intervento riequilibrante del giudice atto a supplire alle carenze di taluna di esse, così evitando condanne o assoluzioni immeritate" (Corte Cost. 26 marzo 1993 n. 111, Azzari).
Anche la giurisprudenza di questa Corte, dopo alcune contrastanti decisioni, è ormai consolidata nel ritenere (pur alla luce della nuova formulazione dell'art. 111 Cost.) che il giudice possa esercitare il potere di disporre d'ufficio l'assunzione di nuovi mezzi prova, previsto dall'art. 507 c.p.p., anche con riferimento a quelle prove che le parti avrebbero potuto richiedere e non hanno richiesto, rimanendo comunque impregiudicata la facoltà della parti di richiedere l'ammissione di nuovi mezzi di prova ai sensi dell'art. 495 c.p.p., comma 2 (Cass. sez. un. n. 41281 del 17.10.2006). Tale decisione ribadisce il principio già enunciato dalle stesse sezioni unite con la sentenza n. 11227 del 6.11.1992, secondo cui l'esercizio del potere previsto dall'art. 507 c.p.p. può essere esercitato anche con riferimento alle prove che le parti avrebbero potuto richiedere e che alla ammissione della prova ex art. 507 c.p.p. il "giudice non potrebbe non far seguire l'ammissione anche delle eventuali prove contrarie".. Una interpretazione costituzionalmente orientata delle norme che prevedono poteri istruttori da parte del giudice comporta, invero, il riconoscimento del diritto alla prova contraria.
E difatti questa Corte, applicando tali principi al rito abbreviato, da un lato, ha ritenuto che "il potere integrativo istruttorio del giudice previsto dall'art. 441 c.p.p., comma 5 è esercitarle anche nel momento stesso in cui viene disposto il giudizio abbreviato, difettando una qualunque previsione in senso contrario e considerato che, sulla base degli atti, il giudice può sin dal primo momento valutare la necessità di acquisire ulteriori elementi necessari alla decisione" (Cass. sez. 6 n. 36236 del 7.7.2004, Mascarucci) e, dall'altro, ha affermato che all'imputato "che abbia richiesto il rito speciale senza integrazioni probatorie deve riconoscersi, nel caso in cui il giudice assuma d'ufficio nuovi elementi necessari alla decisione, il diritto alla controprova..... secondo una ragionevole analogia con l'interpretazione giurisprudenziale dell'art. 507 c.p.p." (Cfr. Cass. sez. 5 n. 11954 dell'8.2.2005, Marino; cass., sez. 5 n. 19388 del 9.5.2006).
Una siffatta interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 441 c.p.p., comma 5 rende manifestamente infondata la denunciata incostituzionalità della norma. Peraltro la stessa Corte Costituzionale, nel dichiarare la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 438 c.p.p., comma 5 sollevata con riferimento all'art. 111 c.p.p., comma 2 (nella parte in cui non prevede il diritto del PM. di chiedere l'ammissione di prova contraria nell'ipotesi in cui l'imputato abbia depositato il fascicolo delle investigazioni difensive e contestualmente formulato richiesta di giudizio abbreviato) ha "suggerito" di esplorare la concreta praticabilità delle soluzioni offerte dall'ordinamento al fine di porre rimedio alla denunciata anomala sperequazione tra accusa e difesa (cfr. ordinanza n. 245 del 2005). Ha evidenziato, invero, la Corte che "il remittente, nell'esprimere le ragioni per cui il potere di assumere, eventualmente anche d'ufficio, gli elementi necessari alla decisione, attribuito al giudice dall'art. 441 c.p.p., comma 5, non sarebbe idoneo a rendere la disciplina censurata conforme a Costituzione, trascura di considerare che nel nuovo giudizio abbreviato il potere di integrazione probatoria è configurato quale strumento di tutela dei valori costituzionali che devono presiedere l'esercizio della funzione giurisdizionale, sicchè proprio a tale potere il giudice dovrebbe far ricorso per rassicurare il rispetto di quei valori". 3.2) La L. 15 febbraio 1996, n. 66 ha unificato la congiunzione carnale violenta e gli atti di libidine previsti dalla normativa previgente nella nozione unitaria di atti sessuali, collocando detti reati tra i delitti contro la persona invece che tra quelli contro la moralità pubblica ed il buon costume. La sfera sessuale, quindi, diventa diritto della persona di gestire liberamente la propria sessualità, con la conseguenza che la condotta rilevante penalmente va valutata in relazione al rispetto dovuto alla persona ed all'attitudine ad offendere la libertà di determinazione della stessa. Non c'è dubbio, pertanto, come ribadito anche di recente da questa Corte (cfr. Cass. sez. 3 n. 28815 del 9.5.2008, Belli) che "la ratio e la lettera della norma inducono a dare di atti sessuali una nozione "oggettiva", facendovi rientrare cioè tutti quegli atti che siano oggettivamente idonei ad attentare alla libertà sessuale del soggetto passivo con invasione della sua sfera sessuale. L'aggettivo sessuale attiene al sesso dal punto di vista anatomico, fisiologico o funzionale, ma non limita la sua valenza ai puri aspetti genitali, potendo estendersi anche a tutte le altre zone ritenute erogene dalla scienza non solo medica, ma anche psicologica, antropologica e sociologica (cfr. ex multis Cass. pen. sez. 3 n. 25112/2007; Cass. pen. sez. 3 11.1.2006 - Beraldo; Cass. sez. 3 1.12.2000, Gerardi; Cass. sez. 3 n. 7772/2000, Calò). Sicchè nella nozione di atti sessuali debbono farsi rientrare tutti quelli che siano idonei a compromettere la libera determinazione della sessualità della persona e ad invadere la sua sfera sessuale (in questa facendo rientrare anche le zone erogene) con modalità connotate dalla costrizione (violenza, minaccia o abuso di autorità), sostituzione ingannevole di persona, ovvero abuso di inferiorità fisica o psichica. Tra gli atti idonei ad integrare il delitto di cui all'art. 609 bis c.p. vanno ricompresi anche quelli insidiosi e rapidi, purchè ovviamente riguardino zone erogene su persona non consenziente (come ad es. palpamenti, sfregamenti, baci)- cfr. Cass. pen. sez. 3 n. 549/2005. Per quanto riguarda l'elemento soggettivo è significativo che la normativa introdotta con la L. n. 66 del 1996 abbia eliminato ogni riferimento al concetto di libidine La relazione al codice con riferimento all'art. 521 c.p. faceva riferimento allo "sfogo dell'appetito di lussuria" e la dottrina prevalente riteneva atti di libidine quelli, diversi dalla congiunzione carnale, diretti ad eccitare la concupiscenza verso piaceri carnali, turpi per se stessi o per le circostanze in cui si cerca di provocarli, ovvero diretti a soddisfare tale concupiscenza. Peraltro già sotto l'imperio della disciplina previgente qualche pronuncia aveva ritenuto che nella previsione dell'art. 521 c.p. non fosse richiesto il fine di eccitare o soddisfare la propria libidine. "Tale fine è estraneo alla lettera ed allo spirito della norma, la quale ha per oggetto la tutela della libertà sessuale del soggetto costretto o indotto; onde è indifferente che chi costringe o induce lo faccia per lucro, per depravazione, per disprezzo, per immondo gusto dello spettacolo o per gioco, purchè egli agisca con la coscienza e volontà di costringere od indurre taluno a commettere atti di libidine su sè stesso, sulla persona del colpevole o su altri.." (cfr. Cass. pen. sez. 1, 25.11.1971 n. 843, Amato ed altri).
Tale pronuncia era in qualche modo anticipazione (con il riferimento alla libertà sessuale) e si inseriva nel dibattito culturale che avrebbe poi portato all'approvazione della nuova normativa.
Non c'è dubbio alcuno, allora, che l'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 609 bis c.p. consista nella coscienza e volontà di compiere un atto lesivo della libertà sessuale della persona e di invadere la sua sfera sessuale senza il consenso della stessa (dolo generico). Irrilevante pertanto è il fine propostosi dal soggetto attivo che può essere diretto a soddisfare la sua concupiscenza, ma anche di altro genere (ludico o di umiliazione della vittima)". 3.2.1) Tanto premesso, i giudici di merito correttamente hanno ritenuto che la condotta posta in essere dal B. vada qualificata come atto sessuale.
Va ricordato che, pacificamente, nell'ipotesi di conferma della sentenza di primo grado, le due motivazioni si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre far riferimento per giudicare della congruità della motivazione.
Allorchè quindi le due sentenze concordino nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella, precedente per formare un unico complesso corpo argomentativo (cfr. ex multis Cass. sez. 1 n. 8868 del 26.6.2000 - Sangiorgi).
Il GIP aveva già evidenziato che dalle dichiarazioni, pienamente attendibili della parte offesa, emergeva che la condotta posta in essere dal B. era consistita nel mettere le mani sui glutei della Bo. facendola sedere a forza sulle sue ginocchio e tenendola stretta a contatto con il suo corpo, e nell'afferrare e palpeggiare i seni della donna. Secondo il GIP l'aggressione alla sfera sessuale della Bo. era, oltre che dal l'oggettività della condotta, ulteriormente confermata dalle frasi pronunciate dall'imputato. Il B. aveva infatti esclamato "nessuno ha il coraggio di farlo, lo faccio io" e poi, dopo gli avvenuti palpeggiamenti, "Tutto qua? Non sei nemmeno un gran che, pensavo fossi meglio". Tali frasi trovavano spiegazione nella circostanza, pure emersa, che la Bo. si era sottoposta ad un intervento di tipo estetico al seno.
Dopo la disamina delle risultanze processuali, riteneva il GIP, con argomentazioni logiche e coerenti, che il B., avesse voluto mettersi in evidenza davanti agli amici, ponendo in essere la condotta descritta nel capo di imputazione per "verificare" gli esiti dell'intervento estetico.
La Corte di Appello ha confermato il giudizio di piena attendibilità della Bo. sottolineando, in particolare, che se la donna avesse voluto calunniare il B. per trarne "profitto", non "avrebbe dovuto collocare l'aggressione in un contesto del genere ed indicare degli amici di B. a riscontro delle false accuse".
E non ha affatto escluso che vi siano stati i palpeggiamenti al seno, essendosi limitata ad affermare che il B. "quantomeno ha palpeggiato i glutei della Bo." (pag. 9). Che vi siano stati i palpeggiamenti è confermato, anche secondo la Corte territoriale dalla frase sopra riportata, che non sarebbe stata pronunciata dall'imputato "se non avesse palpeggiato la donna" (pag. 13).
La Corte di merito ha, quindi, esaminato (anche comparativamente) le dichiarazioni dei testi, pervenendo, con argomentazioni corrette ed immuni da vizi logici, ad un giudizio di complessiva inattendibilità degli stessi.
Ha infatti evidenziato che il contrasto tra le accuse della querelante e le dichiarazioni di Z., C., M. e Ma. non sono affatto insuperabili: essi infatti, tutti amici del B., sentiti dai carabinieri cercarono di ridimensionare la gravità del fatto, incorrendo però in contraddizioni ed inverosimiglianze. E significativo, peraltro, secondo la Corte territoriale che i testi sopraindicati non ricordino la frase pronunciata dall'imputato "fortemente allusiva ad un toccamento in zone erogene" (frase che, peraltro, neppure l'imputato ha escluso di aver pronunciato, limitandosi anche egli ad affermare di non ricordarla).
3.2.2) Con il ricorso viene sostanzialmente prospettata una diversa lettura delle risultanze processuali. Tali prospettazioni non tengono conto, però, che il controllo demandato alla Corte di legittimità va esercitato sulla coordinazione delle proposizioni e dei passaggi attraverso i quali si sviluppa il tessuto argomentativo del provvedimento impugnato, senza alcuna possibilità di rivalutare in una diversa ottica, gli argomenti di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento o di verificare se i risultati dell'interpretazione delle prove siano effettivamente corrispondenti alle acquisizioni probatorie risultanti dagli atti del processo. La Corte di legittimità ha, quindi, solo il compito di verificare che siano razionali le argomentazioni giustificative relative ai dati empirici assunti dai giudici di merito come elementi di prova, alle inferenze formulate ed ai criteri posti a sostegno dei risultati probatori.
Anche a seguito della modifica dell'art. 606 c.p.p., lett. e), con la citata L. n. 46 del 2006, il sindacato della Corte di Cassazione rimane di legittimità: la possibilità di desumere la mancanza, contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione anche da "altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame", non attribuisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare criticamente le risultanze istruttorie, ma solo quello di valutare la correttezza dell'iter argomentativo seguito dal giudice di merito e di procedere all'annullamento quando la prova non considerata o travisata incida, scardinandola, sulla motivazione censurata (cfr. Cass. pen. sez. 6 n. 752 del 18.12.2006; Cass. pen. sez. 2 n. 23419/2007 - Vignaroli).
3.2.3) Essendo sufficiente il dolo generico, non c'è dubbio alcuno che il ricorrente avesse, pienamente, la coscienza e volontà di compiere atti lesivi della libertà sessuale, come è reso evidente dalla più volte ricordata frase da lui stesso pronunciata.
E' irrilevante, come si è visto, che nell'aggressione alla sfera sessuale della Bo. il B. si proponesse di soddisfare la propria concupiscenza sessuale o volesse semplicemente compiere un'azione "dimostrativa" in presenza degli amici. Sul punto, trattandosi di questione di diritto, va precisata ed integrata la motivazione della sentenza impugnata.
3.3) Al rigetto del ricorso segue la condanna alla spese processuali, nonchè alla rifusione delle spese sostenute in questa fase dalla costituita parte civile, che si liquidano, come da richiesta, in complessivi Euro 2.450,00 oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dedotta. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese a favore della parte civile liquidate in complessivi Euro 2.450,00, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 17 giugno 2009.
Depositato in Cancelleria il 12 ottobre 2009

Fin dove ci si può spingere per non violare l'altrui "libertà sessuale"?
La Terza Sezione Penale della Cassazione, con la sentenza del 12 ottobre 2009, n. 39718, torna ancora una volta a pronunciarsi sul reato di violenza sessuale, ribadendo l’orientamento già espresso in altre occasioni.
Nella specie la Suprema Corte si è occupata del ricorso di un quarantenne di Venezia, condannato a dieci mesi di reclusione (pena sospesa e riconoscimento delle attenuanti generiche) per violenza sessuale nei confronti di una barista.
La ragazza, ricostruisce la sentenza in esame, si era sottoposta ad un intervento di chirurgia plastica al seno e l'uomo, "per verificare gli esiti" del ritocco l'aveva presa sulle ginocchia e le aveva palpeggiato il seno dicendole: 'nessuno ha il coraggio di farlo, lo faccio io'. Era seguita la pagella sul 'ritocco': 'Tutto qua, non sei un granché'.
Nella dettagliata sentenza, i supremi giudici scrivono che "l'aggettivo sessuale attiene al sesso dal punto di vista anatomico, fisiologico o funzionale, ma non limita la sua valenza ai puri aspetti genitali, potendo estendersi anche a tutte le altre zone ritenute erogene dalla scienza non solo medica, ma anche psicologica, antropologica e sociologica". Quindi, "nella nozione di atti sessuali - evidenziano - debbono farsi rientrare tutti quelli che siano idonei a compromettere la libera determinazione della sessualità della persona e ad invadere la sua sfera sessuale con modalità connotate dalla costrizione".
Tra gli atti puniti dall' art. 609 bis c.p., "vanno ricompresi anche quelli rapidi e insidiosi, purché ovviamente riguardino zone erogene su persona non consenziente", "palpamenti, sfregamenti, baci", elencano i giudici. "E’ indifferente che chi costringe o induce lo faccia per lucro, per depravazione, per disprezzo, per immondo gusto dello spettacolo o per gioco, purché si agisca con la coscienza e volontà di costringere o indurre taluno a commettere atti di libidine su se stesso, sulla persona del colpevole o su altri", sintetizzano i supremi giudici. Ecco perché è "irrilevante il fine propostosi dal soggetto attivo che può essere diretto a soddisfare la sua concupiscenza, ma anche di altro genere (ludico o di umiliazione della vittima)".
Nel caso in questione è stato del tutto inutile il ricorso in Cassazione del quarantenne (già condannato dalla Corte d'Appello di Venezia nell'ottobre 2008) volto a dimostrare che nei confronti della barista aveva fatto solo "un gesto scherzoso" visto che attirando a sé la ragazza "vi fu solo un contatto glutei-ginocchia che palesemente non può essere qualificato come atto sessuale".
La Suprema Corte in nove pagine di motivazione ha spiegato che quel gesto, fatto per spavalderia davanti agli amici, non rientra nel 'bon ton' sessuale. "E' irrilevante - hanno scritto - che nell'aggressione alla sfera sessuale si proponesse di soddisfare la propria concupiscenza sessuale o volesse semplicemente compiere un'azione dimostrativa in presenza di amici". E' stata compressa la "libertà sessuale" della ragazza, il che basta per fare scattare la condanna.
(Altalex, 5 novembre 2009. Nota di Cesira Cruciani)

Decreto di espulsione va tradotto salvo l'attestazione motivata della impossibilità

Decreto di espulsione va tradotto salvo l'attestazione motivata della impossibilità
Cassazione civile , sez. I, ordinanza 07.10.2009 n° 21357

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Ordinanza 22 maggio - 7 ottobre 2009, n. 21357(Presidente Salmè - Relatore Giusti)Ritenuto
che il relatore designato, nella relazione depositata il 13 febbraio 2009, ha formulato la seguente proposta di definizione:“L'Ufficio territoriale del Governo di Savona, in persona del Prefetto pro-tempore, ha proposto ricorso per cassazione avverso l'ordinanza in data 26 febbraio 2007 con cui il Giudice di pace di Savona, in accoglimento dell'opposizione proposta dalla cittadina brasiliana S. C. A. P., ha annullato il provvedimento di espulsione emesso, nei suoi confronti, dal Prefetto di Savona il 10 maggio 2006.Il ricorso dell'Ufficio territoriale è affidato a quattro motivi di censura.L'intimata non ha svolto attività difensiva in questa sede.Il primo ed il quarto motivo sono manifestamente fondati. Per un verso, non rileva la circostanza, valorizzata invece dal giudice a quo, che la straniera, durante la sua breve permanenza in Italia, abbia espletato una attività lavorativa e condotto una vita dignitosa: secondo la giurisprudenza di questa Corte (Sez. I, 25 febbraio 2004, n. 3746), nell'ipotesi di espulsione dello straniero che si trattenga nel territorio dello Stato senza avere chiesto il permesso di soggiorno nel termine prescritto, il decreto di espulsione costituisce un atto a carattere vincolato, la cui adozione non richiede dunque l'accertamento e la valutazione da parte del prefetto della ricorrenza di ulteriori ragioni giustificative dell'adozione della misura. Per l'altro verso, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice a quo, all'omessa consegna al cittadino straniero, al momento del suo ingresso in territorio italiano, della nota scritta illustrativa dei suoi diritti e dei suoi doveri relativi all'ingresso ed al soggiorno in Italia, prevista dall'art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998, non è espressamente collegato alcun effetto sanzionatorio e deve escludersi che da tale violazione possa inferirsi l'efficacia sanante della condizione d'irregolarità del soggiorno in Italia dello straniero privo di regolare permesso, giacché la scelta dello straniero di fare ingresso in Italia per motivi di turismo comporta l'insorgenza, a carico del medesimo, dell'onere di assumere informazioni circa la normativa vigente in Italia (cfr. Cass., Sez. I, 16 marzo 2006, n. 5825).Il secondo motivo di ricorso è manifestamente fondato.Il Giudice di pace ha annullato il provvedimento prefettizio - tradotto in spagnolo - per mancata traduzione nella lingua madre (il portoghese) dell'espulsa. Il Giudice di pace non ha preso in considerazione l'attestazione dell'Amministrazione circa l'impossibilità di reperire in tempi brevi un interprete di lingua conosciuta dalla persona straniera. Il Giudice di pace si è cosi allontanato dal principio di diritto - costante nella giurisprudenza di questa Corte (Sez. I, 29 novembre 2006, n. 25362) - secondo cui, in tema di espulsione amministrativa dello straniero, l'obbligo dell'autorità procedente di tradurre la copia del relativo decreto nella lingua conosciuta dallo straniero stesso è derogabile tutte le volte in cui detta autorità attesti e specifichi le ragioni per le quali tale operazione sia impossibile e si imponga la traduzione nelle lingue predeterminate dalla norma di cui all'art. 13, comma 7, del d.lgs. 286 del 1998 (francese, inglese, spagnolo), atteso che tale attestazione è nel contempo, condizione non solo necessaria, ma anche sufficiente a che il decreto di espulsione risulti immune da vizi di nullità senza che il giudice di merito possa ritenersi autorizzato a sindacare le scelte della P.A. in termini di concrete possibilità di effettuare immediate traduzioni nella lingua dell'espellendo. In particolare, come chiarito dall'art. 3 del d.P.R. n. 334 del 2004, che detta norme regolamentari e di attuazione del citato art. 13, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998, sempre che il giudice non accerti la sufficiente conoscenza da parte dello straniero della lingua italiana, l'attestazione da parte dell'autorità procedente della indisponibilità di personale idoneo alla traduzione nella lingua conosciuta dallo straniero della sintesi del contenuto del decreto di espulsione è condizione sufficiente per la validità della traduzione in una delle predette tre lingue, per le quali l'interessato abbia indicato preferenza.Anche il terzo motivo appare manifestamente fondato, perché il provvedimento del questore di intimazione a lasciare il territorio dello Stato entro cinque giorni non è soggetto a convalida da parte del giudice ordinario. È costante nella giurisprudenza di questa Corte (Sez. Un., 18 ottobre 2005, n. 20121) il principio secondo cui il provvedimento con il quale il questore, ai sensi dell'art. 14, comma 5-bis, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ordina allo straniero colpito da provvedimento prefettizio di espulsione di lasciare il territorio dello Stato entro cinque giorni, non è suscettibile di autonoma impugnazione davanti all'autorità giudiziaria ordinaria con il procedimento previsto per l'opposizione all'espulsione dall'art. 13 del medesimo d.lgs., non essendo ammissibile una indeterminata espansione dei mezzi di tutela tassativamente indicati dalla legge. Né ciò comporta una carenza di tutela giurisdizionale, in quanto, da un lato, la predetta intimazione non incide sulla liberta personale dell'espulso (non ristretto presso un centro di permanenza temporanea, né sottoposto all'accompagnamento coattivo alla frontiera) e, pertanto, non comporta l'adozione degli strumenti giurisdizionali di controllo espressamente previsti per le convalide delle misure restrittive; dall'altro, il controllo sulla sussistenza dei presupposti per adottare l'intimazione è demandato al giudice penale nell'ambito del giudizio sull'imputazione ascritta al soggetto espulso che si sia trattenuto senza giustificato motivo nel territorio dello Stato in violazione dell'ordine impartito dal questore, potendo, in quella sede, l'autorità giudiziaria disapplicare, ai sensi dell'art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, l'atto presupposto che sia stato assunto illegittimamente”.
Considerato
che il Collegio non condivide la proposta di definizione contenuta nella relazione depositata;che, in particolare, con riferimento alla questione della mancata traduzione, articolata con il secondo motivo, il Giudice di pace ha rilevato che il decreto prefettizio è stato redatto in lingua italiana e spagnola, sulla presunzione che l'espellenda conoscesse tali idiomi, mentre la lingua conosciuta dalla stessa risulta essere quella portoghese, lingua ufficiale del Brasile;che la questione della presenza, nella relata di notifica del decreto di espulsione, di una attestazione della Amministrazione nel senso della impossibilità della immediata disponibilità di un traduttore ed interprete ufficiale nella lingua madre della cittadina straniera, e della sufficienza di essa a rendere valido il decreto, è proposta per la prima volta in cassazione, non risultando che di essa si sia discusso nel giudizio di merito;che, quindi, il motivo che veicola detta censura è inammissibile;che, pertanto, poiché nell'ordinanza del Giudice di pace la mancata traduzione del decreto di espulsione è ragione sufficiente della invalidità dello stesso e, in questa parte, la pronuncia impugnata si sottrae alla censura dell'Amministrazione, il ricorso, nel suo complesso, va respinto, restando assorbito l'esame delle altre doglianze;che nessuna pronuncia sulle spese deve essere emessa, non avendo l'intimata svolto attività difensiva in questa sede.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.






Un cittadino brasiliano può essere espulso dal territorio italiano se non conosce la lingua spagnola (tenuto conto del fatto che la lingua ufficiale del Brasile è il portoghese)?
Sul quesito si è espressa recentemente la Suprema Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 21357 depositata il 7 ottobre u.s.
La natura del provvedimento di espulsione
Il provvedimento di espulsione, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, è provvedimento obbligatorio a carattere vincolato sicchè il giudice ordinario dinanzi al quale esso venga impugnato è tenuto unicamente a controllare l'esistenza, al momento dell'espulsione, dei requisiti di legge che ne impongono l'emanazione, i quali consistono nella mancata richiesta in assenza di cause di giustificazione del permesso di soggiorno, ovvero nella sua revoca od annullamento o nella mancata tempestiva richiesta di rinnovo che ne abbia comportato il diniego.
Non è invece consentita al giudice investito dell'impugnazione del provvedimento di espulsione alcuna valutazione sulla legittimità del provvedimento del questore che abbia rifiutato, revocato o annullato il permesso di soggiorno ovvero ne abbia negato il rinnovo poichè tale sindacato spetta al giudice amministrativo, la cui decisione non costituisce in alcun modo un antecedente logico della decisione sul decreto di espulsione.
Sull’argomento, la giurisprudenza (Cass. civ., sez. un., 18 ottobre 2005, n. 20125; Cass. civ., sez. I, 29 dicembre 2005, n. 28869; Cass. civ., sez. un., 16 ottobre 2006, n. 22217; Cass. civ., sez. un., 23 ottobre 2006, n. 22663) ritiene che il giudice dell'espulsione è tenuto solo a verificare la carenza di un titolo che giustifichi la presenza dello “straniero” sul territorio nazionale, non anche la regolarità dell'azione amministrativa svolta al riguardo, le cui carenze non possono essere dedotte come motivo di impugnazione dell'espulsione.
Ne consegue che la pendenza del giudizio promosso dinanzi al giudice amministrativo per l'impugnazione dei predetti provvedimenti negativi non giustifica la sospensione e la cessazione del processo instaurato dinanzi al giudice ordinario con l'impugnazione del decreto di espulsione del prefetto attesa la carenza di pregiudizialità giuridica necessaria tra il processo amministrativo e quello civile (Contra Cass. civ., 20 giugno 2000, n. 8381).
Traduzione del decreto di espulsione ed art. 13, comma 7, del D.Lgs. 286/1998
In punto di fatto è il caso di osservare che l'Ufficio territoriale del Governo di Savona, in persona del Prefetto pro-tempore, ha proposto ricorso per cassazione avverso l'ordinanza in data 26 febbraio 2007 con cui il Giudice di pace di Savona, in accoglimento dell'opposizione proposta dalla cittadina brasiliana, ha annullato il provvedimento di espulsione emesso, nei suoi confronti, dal Prefetto di Savona il 10 maggio 2006.
Secondo i giudici di legittimità, il provvedimento del questore notificato non risultava redatto in una lingua conosciuta dalla straniera, così come richiede il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 7, ma, stante l'impossibilità di reperire un traduttore di lingua portoghese, lingua ufficiale del Brasile, era stato redatto in lingua italiana e spagnola, sulla presunzione che l'espellenda conoscesse tali idiomi. Inoltre, la giustificazione dell’impossibilità della immediata disponibilità di un traduttore ed interprete ufficiale nella lingua madre della cittadina straniera, e della sufficienza di essa a rendere valido il decreto, è proposta per la prima volta in cassazione, non risultando che di essa si sia discusso nel giudizio di merito.
Di qui l'illegittimità del provvedimento per difetto di motivazione in ordine alla scelta di una delle lingue di redazione dell'atto (l'art. 13, comma 7 prescrive infatti che l'ordine del questore deve essere tradotto allo straniero "in una lingua da lui conosciuta, ovvero, ove non sia possibile, in lingua francese inglese o spagnola").
Ciò premesso, si osserva che il comma 7, dell'art. 13 del D.Lgs. 286/1998 pone una norma di civiltà giuridica, affermando che il decreto di espulsione - come pure il provvedimento con cui lo straniero viene introdotto temporaneamente in un centro di accoglienza (art. 14, comma 1), nonchè ogni altro atto concernente l'ingresso in Italia, il soggiorno o l'espulsione - devono essere comunicati all'interessato, unitamente all'indicazione delle modalità di impugnazione e a una traduzione in una lingua da lui conosciuta, ovvero, ove non sia possibile, in lingua francese, inglese o spagnola.
Dalla disposizione in esame si evince che l'obbligo di traduzione del provvedimento del questore in una lingua conosciuta dallo straniero non è assoluto, ma è derogabile tutte le volte in cui l'autorità amministrativa attesti e specifichi le ragioni tecnico-organizzative per le quali tale traduzione non sia possibile e si imponga per l'effetto la traduzione in una delle tre lingue predeterminate dalla norma (francese, inglese, spagnolo).
Va da sè che tale attestazione deve riguardare la lingua conosciuta dallo straniero espellendo, una lingua evidentemente diversa da una di quelle cd. internazionali (francese, inglese, spagnolo). Ciò significa che l'autorità amministrativa, nel disporre la traduzione del provvedimento in una delle tre lingue specificamente indicate come obbligatorie, deve accertare preventivamente quale di queste tre lingue sia conosciuta dallo straniero, qualora non sia possibile eseguire la traduzione nella sua lingua madre.
Una traduzione in una delle tre lingue comuni e più diffuse come quelle indicate (francese, inglese, spagnolo) che non sia accompagnata da alcun accertamento preventivo sul punto è destinato ad inficiare la regolarità della traduzione e quindi del provvedimento amministrativo, e questo perchè la ratio della norma è proprio quella di assicurare allo straniero la comprensione della misura e l'apprestamento della sua difesa (Cass. civ., Sez. 1, 7 luglio 2000, n. 9078).
Esplicita sul punto si è mostrata anche la Corte costituzionale che, pur dichiarando manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, comma 7 nella parte in cui non prevede l'obbligatorietà della traduzione del decreto di espulsione notificato allo straniero nella sua lingua madre, ha tuttavia evidenziato che spetta al giudice di merito verificare se il provvedimento di espulsione sia stato tradotto in una lingua conosciuta o conoscibile dallo straniero, al fine di accertare se l'atto ha raggiunto o meno lo scopo cui è preordinato (Corte Cost., 8-21 luglio 2004, n. 257).
Ne consegue che la traduzione si configura come condizione di validità del provvedimento e che l'emissione del provvedimento in lingua italiana accompagnato dalla traduzione in una delle tre lingue dianzi indicate (francese, inglese, spagnolo) presuppone, a pena di invalidità del decreto, l'acquisizione della prova della conoscenza da parte dello straniero di una di queste lingue.
(Altalex, 6 novembre 2009. Nota di Rocchina Staiano)

Pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni

Pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni
Circolare Ministero Economia e finanze 08.10.2009 n° 29 , G.U. 22.10.2009


http://www.altalex.com/index.php?idnot=47955

MINISTERO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE, CIRCOLARE 8 ottobre 2009, n. 29
Decreto 18 gennaio 2008, n. 40, concernente «Modalita' di attuazione dell'articolo 48-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, recante disposizioni in materia di pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni» - Nuovi chiarimenti. (09A12404)
(GU n. 246 del 22-10-2009)
Agli uffici centrali del bilancio presso le amministrazioni centrali dello Stato All'Ufficio centrale di ragioneria presso l'Amministrazione dei monopoli di Stato Alle ragionerie territoriali dello Stato Ai revisori dei conti in rappresentanza del Ministero dell'economia e delle finanze presso enti ed organismi pubblici
e p.c.:
Alla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Segretariato generale Alle amministrazioni centrali dello Stato - Gabinetto All'Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato Al Consiglio di Stato Alla Corte dei conti All'Avvocatura generale dello Stato
Premessa e quadro normativo.Nel quadro generale della normativa inerente ai pagamenti disposti da parte delle pubbliche amministrazioni, sicuramente ha assunto una notevole rilevanza, soprattutto per l'ampia sfera di applicazione, la disciplina recata dall'art. 48-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 602/1973, disposizione introdotta dall'art. 2, comma 9, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2006, n. 286, successivamente modificata dall'art. 19 del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 novembre 2007, n. 222, nonche' dall'art. 2, comma 17, della legge 15 luglio 2009, n. 94.Il citato art. 48-bis, nella sua attuale formulazione, prevede che le amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e le societa' a prevalente partecipazione pubblica, prima di effettuare, a qualunque titolo, il pagamento di un importo superiore a diecimila euro, verifichino se il beneficiario e' inadempiente all'obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o piu' cartelle di pagamento per un ammontare complessivo pari almeno a detto importo e, in caso affermativo, non procedano al pagamento, segnalando la circostanza all'agente della riscossione competente per territorio, al fine dell'esercizio dell'attivita' di riscossione delle somme iscritte a ruolo.Il comma 2-bis del medesimo art. 48-bis, inoltre, stabilisce che la predetta soglia di diecimila euro possa essere aumentata, in misura comunque non superiore al doppio, ovvero diminuita, con decreto di natura non regolamentare del Ministro dell'economia e delle finanze.La normativa in discorso, a seguito dell'emanazione del regolamento di attuazione adottato con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze n. 40/2008, e' divenuta operativa e concretamente applicabile a far data dal 29 marzo 2008, limitatamente pero' alle sole amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165/2001, ed alle societa' a totale partecipazione pubblica, in quanto il medesimo decreto n. 40/2008 rinvia ad un successivo regolamento la disciplina per la relativa attuazione nei confronti delle societa' a prevalente partecipazione pubblica.La disposizione di cui all'art. 48-bis, viceversa, dal 30 luglio 2009 - data di entrata in vigore delle modifiche introdotte dal richiamato art. 2, comma 17, della legge n. 94/2009 - non e' applicabile alle aziende ne' alle societa' per le quali sia stato disposto il sequestro o la confisca ai sensi dell'art. 12-sexies, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, concernente ipotesi particolari di confisca, ovvero ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, recante disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso.E' d'obbligo ricordare, poi, che non e' stata mutata la soglia di diecimila euro individuata dall'art. 48-bis idonea a far scattare l'obbligo della verifica.Appare anche opportuno segnalare che in data 9 luglio 2009 e' stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 157 il decreto del Ministro dell'economia e delle finanze 19 maggio 2009 recante «Disciplina delle modalita' di attuazione dell'art. 9, comma 3-bis, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, concernente la certificazione dei crediti, da parte delle regioni e degli enti locali debitori, relativi alla somministrazione di forniture o di servizi». Infatti, seppure limitatamente all'anno 2009, tale decreto prevede che, al fine di permettere agli enti pubblici territoriali di rilasciare la predetta certificazione finalizzata alla cessione del credito, venga attivata una verifica afferente all'art. 48-bis secondo le modalita' del decreto ministeriale n. 40/2008, senza dar luogo, nel caso di riscontrato inadempimento, all'attivazione automatica delle procedure di riscossione coattiva da parte dell'agente della riscossione.Sotto il versante ermeneutico, invece, occorre nominare la circolare 29 luglio 2008, n. 22, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale - serie generale - n. 186 del 9 agosto 2008, con la quale e' stata fornita una lettura interpretativa in merito ad alcune delle problematiche apparse di maggiore importanza e di piu' generale interesse.A circa un anno dalla diffusione della menzionata circolare, della quale si confermano interamente l'impianto argomentativo e le considerazioni esposte, si e' ritenuto opportuno e doveroso, stante pure le sollecitazioni e le richieste pervenute, offrire un contributo integrativo alla tematica in questione, fornendo cosi' nuovi chiarimenti.Pagamento concomitante di piu' fatture.E' stata rappresentata, da varie amministrazioni, la problematica concernente l'esatta individuazione dell'importo da sottoporre alla verifica prevista dall'art. 48-bis nel caso di pagamento di una pluralita' di fatture, anche di importo inferiore a diecimila euro, emesse dal medesimo fornitore e relative a diversi contratti, ma di importo superiore a detta soglia se complessivamente considerate.Tale situazione, in particolare, assume rilevanza nel caso in cui la stessa amministrazione procede alla liquidazione delle somme spettanti al fornitore attraverso l'emissione di un unico mandato di pagamento, per evidenti ragioni di economicita' procedimentale e speditezza dell'azione amministrativa.Al riguardo, preliminarmente, appare utile ricordare che nella richiamata circolare n. 22/2008, in ordine al tema del divieto di artificiosi frazionamenti dei pagamenti, e' stato esplicitato che il pagamento - identificato nella sua accezione privatistica e non come fase della spesa nel suo significato giuscontabile - e' l'adempimento di un'obbligazione pecuniaria derivante, per lo piu', da un rapporto contrattuale.Pertanto, nel caso di specie, e' verosimile ritenere che, di norma, le diverse fatture identifichino distinti pagamenti intesi nell'accezione poc'anzi indicata.La circostanza, poi, che l'amministrazione nel procedere alla liquidazione di quanto dovuto ad un medesimo beneficiario provveda al pagamento - per esigenze di semplificazione o, talvolta, per momentanea carenza di liquidita' e conseguente necessitata liquidazione congiunta di piu' somme dovute - emettendo un unico mandato relativo a varie fatture, si ritiene non implichi la necessita' di dover effettuare la prevista verifica nel caso in cui sia stata superata la soglia dei diecimila euro solo con riguardo all'importo complessivamente indicato nel mandato di pagamento emesso.A ben vedere, infatti, una diversa interpretazione che porti a riferire la soglia di operativita' della verifica prevista dal citato art. 48-bis alla somma degli importi indicati nello stesso mandato di pagamento, appare suscettibile di generare disparita' applicative da parte delle diverse amministrazioni, specie tra quelle che procedono alla liquidazione dei debiti con una certa correntezza e quelle che, per vari motivi, si trovano a liquidare, anche a distanza di tempo, una pluralita' di fatture ricevute da uno stesso fornitore.La medesima soluzione, si ritiene debba essere estesa anche al caso in cui le diverse fatture, pur riferendosi ad un identico contratto, vengono emesse, nell'ipotesi di appalto di lavori, in coincidenza con i diversi stati di avanzamento lavori (SAL) e con il saldo finale, ovvero, nell'ipotesi di fornitura di beni o servizi (in virtu' di piu' contratti di somministrazione o comunque ad esecuzione periodica), in base alla concomitante periodicita' prevista dai contratti stessi o dagli usi.Chiarimenti integrativi in materia di raggruppamenti temporanei di imprese.Nella circolare n. 22/2008 e' stato chiarito che, nell'ipotesi di associazione temporanea di imprese e, ora, di raggruppamento temporaneo di imprese (art. 37 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163), la verifica prevista dall'art. 48-bis va effettuata sia in capo all'impresa mandataria che nei riguardi dell'impresa mandante, poiche', di regola, le imprese raggruppate, nell'esecuzione del contratto, non perdono l'autonomia gestionale nei complessi rapporti giuridici posti in essere all'interno del raggruppamento stesso e nei confronti dei terzi, e pertanto, relativamente ad ognuna di esse, permane, per i lavori di competenza, l'obbligo di fatturazione delle operazioni direttamente alla stazione appaltante.In particolare, la verifica prevista dall'art. 48-bis va effettuata sugli importi di pertinenza di ogni singola impresa sulla base dei lavori eseguiti da ciascuna, pure laddove cio' sia avvenuto non in conformita' alla quota di partecipazione.Al riguardo va precisato che tale soluzione e' valida sia nel caso in cui il mandato di pagamento e' intestato alla mandataria che riscuote in nome e per conto della mandante, sia, ovviamente, nel caso in cui e' la stessa impresa mandante a curare direttamente la riscossione del proprio credito.Infatti, anche quando il pagamento e' eseguito a favore dell'impresa mandataria, il mandato conferito da parte della mandante, al fine di provvedere alla sola riscossione del credito vantato nei confronti della pubblica amministrazione, non produce il trasferimento della titolarita' del diritto di credito che permane in capo all'impresa mandante, nei confronti della quale dovra', quindi, essere espletata la verifica ex art. 48-bis per l'intero importo dalla stessa fatturato.Leasing.Con riferimento ai pagamenti connessi all'ammortamento dei mutui concessi da societa' bancarie e dalla Cassa depositi e prestiti S.p.a. nonche' ad altre operazioni di indebitamento della pubblica amministrazione, nella piu' volte richiamata circolare n. 22/2008 e' stato espresso l'avviso che non debba essere attivata la procedura di verifica prevista dall'art. 48-bis, attesa l'esistenza, tra l'altro, di specifiche disposizioni di legge per la tutela di tali crediti.Considerazioni non dissimili, stante le forti assonanze e finalita', possono essere svolte nei confronti di altre operazioni di indebitamento, tra le quali il leasing o contratto di locazione finanziaria.In estrema sintesi ed in termini assolutamente generali, senza scendere nel dettaglio e nell'analisi delle varie tipologie di leasing, si rileva che attraverso tale contratto la pubblica amministrazione puo' ottenere - a fronte del pagamento di un canone periodico e con possibilita', normalmente, di riscatto alla scadenza - il godimento di un bene la cui utilita' concorre, in via diretta o strumentale, a soddisfare un interesse pubblico.Al riguardo, e' indubbio che anche il leasing, permettendo di ripartire su un determinato arco temporale, spesso di lungo periodo, l'onere finanziario derivante dall'acquisizione della disponibilita' di un bene, costituisce per la pubblica amministrazione una forma di indebitamento, sicuramente assimilabile all'accensione di un mutuo.Per altro verso, similmente ai mutui, i crediti derivanti da canoni relativi a contratti di locazione finanziaria ricevono, da diverse disposizioni di legge, una particolare tutela (ad esempio l'art. 67, terzo comma, della legge 16 marzo 1942, n. 267, esclude l'azione revocatoria per i pagamenti effettuati).Cio' posto, si ritiene che anche i pagamenti dei canoni connessi ad operazioni di leasing, al pari delle rate di ammortamento del mutuo, debbano ritenersi esclusi dall'applicazione della verifica prevista dall'art. 48-bis.Rapporto tra l'art. 48-bis e l'art. 72-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 602/1973.Alcune amministrazioni hanno sollevato talune perplessita' in ordine al rapporto esistente tra l'art. 48-bis e l'art. 72-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 602/1973.Nello specifico, e' stato rappresentato che le disposizioni contenute nell'art. 3 del decreto ministeriale n. 40/2008, volte a disciplinare gli effetti della verifica in caso di inadempimento da parte del beneficiario, sembrerebbero riguardare solo i crediti per i quali l'agente della riscossione competente per territorio possa procedere alla notifica dell'ordine di versamento di cui all'art. 72-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 602/1973.Infatti, da una prima lettura della citata disposizione regolamentare, potrebbe trarsi il convincimento di una applicazione dell'art. 48-bis esclusivamente propedeutica e finalizzata all'attivazione dell'art. 72-bis.Tale conclusione troverebbe notevoli riflessi pratici con riguardo, in particolare, ai crediti pensionistici, per i quali, stante l'inapplicabilita' agli stessi della procedura di pignoramento delineata dal citato art. 72-bis, si e' giunti a prefigurarne sin anche un'esclusione dalla verifica.Per fornire una soddisfacente soluzione alla cennata problematica, preliminarmente, appare utile richiamare il parere n. 2834/2007 - espresso nell'adunanza del 22 ottobre 2007, in merito allo schema di regolamento successivamente adottato con il menzionato decreto ministeriale n. 40/2008 - con il quale il Consiglio di Stato ha ritenuto, in via generale, che le somme su cui puo' esercitarsi la sospensione sono quelle sulle quali, ai termini e nei limiti previsti dalla legge, e' esperibile l'azione di recupero coattivo ad opera dell'agente della riscossione.Segnatamente sul pignoramento dei crediti pensionistici e' pure d'obbligo sottolineare che la Corte costituzionale, enucleando principi e criteri aventi portata generale, si e' pronunciata per «l'illegittimita' costituzionale degli articoli 1 e 2, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1950, n. 180 (Testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni), nella parte in cui escludono la pignorabilita' per ogni credito dell'intero ammontare delle pensioni, indennita' che ne tengono luogo ed altri assegni di quiescenza erogati ai dipendenti dai soggetti individuati dall'art. 1, anziche' prevedere l'impignorabilita', con le eccezioni previste dalla legge per crediti qualificati, della sola parte delle pensioni, indennita' o altri assegni di quiescenza necessaria per assicurare al pensionato mezzi adeguati alle esigenze di vita e la pignorabilita' nei limiti del quinto della residua parte» (sentenza n. 506 del 4 dicembre 2002 e, gia' sulla medesima linea, sentenza n. 468 del 22 novembre 2002).In buona sostanza, da quanto sopra esposto, quindi, per il Consiglio di Stato sono, in genere, soggetti alla verifica di cui all'art. 48-bis i pagamenti di somme sulle quali l'agente della riscossione e' legittimato ad intraprendere l'azione di recupero coattivo, mentre, per la Corte costituzionale, sarebbe incostituzionale una previsione di legge volta ad escludere completamente la pignorabilita' dei trattamenti pensionistici.Cio' considerato, dal quadro giuridico delineato si deduce chiaramente che non sussistono solide ragioni per escludere i crediti pensionistici dall'ambito di applicazione dell'art. 48-bis.Pertanto, nonostante il citato decreto ministeriale n. 40/2008, all'art. 3, comma 3, relativamente agli effetti della verifica, contenga soltanto il riferimento all'art. 72-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 602/1973 - che prevede, salvo il caso della riscossione coattiva dei crediti pensionistici, la possibilita' per l'agente della riscossione di procedere al pignoramento presso terzi mediante la notifica di un atto semplificato rispetto a quello ordinario previsto dall'art. 543 del codice di procedura civile - si e' dell'avviso che non possa escludersi, per tale tipologia di crediti, l'attivazione della verifica ex art. 48-bis, laddove l'importo da pagare superi i diecimila euro, in quanto l'agente della riscossione potra', nell'ipotesi di rilevata inadempienza, sempre attivare l'ordinaria procedura di riscossione coattiva.D'altra parte, neppure puo' essere tralasciata la considerazione che la disciplina recata dal decreto del Presidente della Repubblica n. 602/1973 non contiene alcun riferimento che possa indurre a far ritenere che l'art. 48-bis si atteggi a presupposto necessario per l'applicazione dell'art. 72-bis.In proposito, si consideri anche che, mentre l'art. 72-bis, seppure con una portata piu' limitata, e' stato introdotto dall'art. 3, comma 40, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, l'art. 48-bis, come gia' detto, e' stato introdotto in epoca successiva ad opera del decreto-legge n. 262/2006.Per cui, in ultima analisi, non puo' che riconoscersi una sostanziale autonomia precettiva e applicativa dei due articoli in argomento. Non esistono motivi ostativi, ad esempio, perche' l'agente della riscossione possa avvalersi dell'art. 72-bis a prescindere dall'avvenuta attivazione della verifica di cui all'art. 48-bis.Chiarimenti integrativi in materia di cessione del credito.Con l'obiettivo di dirimere talune difficolta' interpretative sorte in occasione dell'emanazione del decreto ministeriale n. 40/2008, nella circolare n. 22/2008 e' stato precisato che, in caso di cessione del credito - effettuata ai sensi degli articoli 1260 e seguenti del codice civile e della legge 21 febbraio 1991, n. 52, per la cessione dei crediti d'impresa - la verifica prevista dall'art. 48-bis deve essere eseguita nei confronti del creditore originario (cedente) nel presupposto che l'amministrazione rimanga estranea al rapporto tra cedente e cessionario finalizzato al trasferimento della titolarita' del credito.Cio' nonostante, ferma restando la validita' complessiva delle enunciazioni esposte nella menzionata circolare, considerazioni relative alla situazione economica generale del Paese nonche' alle crescenti difficolta' di piccole e medie imprese ad accedere a finanziamenti attraverso la cessione dei propri crediti impongono, pero', un maggiore approfondimento della tematica in discorso, specialmente con riguardo al momento in cui effettuare la prescritta verifica presso Equitalia Servizi S.p.a.A tal fine, appare quindi opportuno, in linea con lo spirito della piu' recente normativa in materia di facilitazioni all'accesso al credito delle imprese (basti considerare, in proposito, le disposizioni recate dal decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2) ed in sintonia con il precipuo interesse alla riscossione dei crediti erariali, esaminare gli effetti che produce nei confronti della pubblica amministrazione la notificazione o l'accettazione della cessione del credito (art. 1264, comma primo, del codice civile).Nell'ambito dello scenario della disciplina codicistica, qualora la cessione del credito sia avvenuta senza il consenso del soggetto pubblico debitore (ceduto) - indipendentemente da una eventuale conoscenza o semplice notificazione della cessione - la verifica prevista dall'art. 48-bis, come gia' indicato nella cennata circolare n. 22/2008, deve essere effettuata esclusivamente nei confronti del creditore originario (cedente).In assenza del consenso del debitore - non necessario ai sensi dell'art. 1260 del codice civile, purche' il credito non abbia carattere strettamente personale - la pubblica amministrazione puo', infatti, opporre al cessionario tutte le eccezioni che poteva far valere nei confronti del creditore originario.Invero, con la cessione del credito - subentrando il cessionario nel diritto di credito del cedente e sostituendosi ad esso nella medesima posizione - non puo' determinarsi una modifica peggiorativa della posizione originaria del debitore ceduto a causa della cessione del credito in cui, tra l'altro, non ha avuto direttamente parte.Cio' nondimeno, si ritiene che il meccanismo della verifica delineato dall'art. 48-bis possa essere soddisfatto anche altrimenti, ricorrendo specifiche circostanze e in presenza di determinate condizioni, rispetto a quanto gia' esposto nella circolare n. 22/2008.Infatti, allorche' la pubblica amministrazione (ceduto) sia stata adeguatamente resa partecipe dell'avvenuta cessione del credito a mezzo notifica della stessa, si e' dell'avviso che, sussistendo determinati presupposti, la ratio della norma recata dall'art. 48-bis possa ritenersi egualmente soddisfatta attraverso l'effettuazione di una prima verifica volta ad accertare la posizione del beneficiario (cedente) all'atto della predetta notifica, seguita da una successiva verifica nei confronti del cessionario da effettuare al momento del pagamento.Al riguardo, non si puo' prescindere dal considerare che il credito ceduto puo' giungere a maturazione anche dopo molti anni dalla cessione, esponendo il cessionario al rischio di possibili comportamenti fiscali e amministrativi, in senso lato, poco virtuosi del cedente - eventualmente posti in essere in tempi susseguenti, anche lontani - e che tale incertezza possa, in qualche modo, ripercuotersi sul costo di cessione, incidendo, infine, anche sul corrispettivo contrattuale o, comunque, sulle somme dovute, con la potenziale insorgenza di maggiori oneri per la pubblica amministrazione.Per altro verso, evidenti ragioni anti-elusive, escludono che la verifica de qua possa essere effettuata solamente nei confronti del cessionario.Pertanto, si ritiene che - anche al fine di liberare il cessionario da eventuali futuri rischi connessi a possibili azioni di recupero coattivo poste in essere dall'agente della riscossione per effetto di una sopraggiunta situazione di inadempienza del cedente stesso, rilevabile ex art. 48-bis - dovra' essere richiesta all'amministrazione debitrice, in occasione della notifica della cessione, l'espressa accettazione della cessione del credito con esplicito riferimento all'insussistenza di situazioni di inadempienza.La suddetta richiesta, allo scopo, dovra' essere opportunamente accompagnata dall'esplicito consenso al trattamento dei dati personali da parte del soggetto cedente - come previsto dall'art. 23 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, recante il codice in materia di protezione dei dati personali - affinche' l'amministrazione debitrice possa procedere ad una verifica in capo al soggetto cedente, per assolvere alle finalita' indicate dall'art. 48-bis.Tale consenso - che potra' essere formulato secondo il fac-simile unito alla presente circolare (Allegato A) - si ritiene vada fornito, in quanto, a ben vedere, la verifica e' effettuata in un momento temporalmente anche molto distante dal correlato pagamento, per cui, a rigore, la situazione non e' esattamente inquadrabile nella fattispecie delineata dall'art. 48-bis.Peraltro, la suddetta verifica, in caso di riscontrata inadempienza, non produrra' l'attivazione da parte dell'agente della riscossione delle procedure previste per il recupero coattivo delle somme iscritte a ruolo, ma permettera' all'amministrazione debitrice di non rendere il proprio esplicito consenso alla cessione del credito notificata.Diversamente, qualora il cedente sia risultato «non inadempiente'», l'amministrazione debitrice comunichera' al cedente ed al cessionario l'espressa accettazione della cessione del credito, con l'effetto di liberare il cessionario dalla possibilita' di vedersi sollevare, in occasione del pagamento, eccezioni connesse alla situazione del cedente.Si reputa, poi, opportuno soggiungere che, al fine di produrre gli effetti sopra indicati, il meccanismo teste' delineato dovra' essere necessariamente attivato affinche' l'amministrazione presti il consenso alla cessione del credito derivante da contratti ancora in corso (art. 9 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, Allegato E) ovvero da contratti di somministrazione e fornitura (art. 70, terzo comma, del regio decreto 18 novembre 1923, n. 2440).Una considerazione a parte merita, inoltre, il caso di cessioni di crediti derivanti da contratti di servizi, forniture e lavori di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (codice dei contratti pubblici).Orbene, l'art. 117, commi 2 e 3, del codice dei contratti pubblici prevede che le cessioni di crediti da corrispettivo di appalto, concessione e concorso di progettazione devono essere notificate alle amministrazioni debitrici e sono efficaci ed opponibili a queste ultime qualora non le rifiutino con comunicazione da notificarsi al cedente e al cessionario entro quarantacinque giorni dalla notifica della cessione.E' indubbio, quindi, che in tal caso l'amministrazione all'atto della notificazione della cessione del credito dovra' necessariamente effettuare la verifica ai sensi dell'art. 48-bis in capo al soggetto cedente - che, a tal fine, fornira' esplicito consenso ai sensi dell'art. 23 del decreto legislativo n. 196/2003 - allo scopo, nel caso di riscontrata situazione di «inadempienza», di rifiutare la cessione del credito.Va da se' che l'omesso consenso del cedente alla verifica in discorso - e la conseguente sostanziale impossibilita' per l'amministrazione di effettuare immediatamente la stessa - ovvero la rilevazione di una situazione di «inadempienza», implicano l'effettuazione della verifica nei confronti del cedente all'atto del successivo pagamento.Appare, poi, chiaro che, nel caso in cui l'amministrazione debitrice abbia manifestato il proprio consenso alla cessione del credito - in quanto il cedente e' risultato «non inadempiente» - il controllo ex art. 48-bis andra' effettuato nei confronti del solo cessionario.In definitiva, va sottolineato, comunque, come soltanto l'avvenuta rilevazione della assenza di inadempimenti a carico del cedente, ancorche' effettuata al momento della notifica della cessione, legittima l'esclusione dello stesso cedente dalla sottoposizione ad una nuova verifica al momento del pagamento.Errata attivazione dell'art. 48-bis.Talune amministrazioni hanno segnalato che, prima di effettuare un pagamento, potrebbe avvenire che sia stata erroneamente attivata la verifica prevista dall'art. 48-bis anche per casi in cui, alla luce degli indirizzi interpretativi forniti con la circolare n. 22/2008 oppure per altre ragioni, l'obbligo di verifica doveva ritenersi escluso (ad esempio: il beneficiario ha la natura di pubblica amministrazione; il pagamento e' fondato su ragioni di preminente interesse pubblico; eccetera).Nello specifico, e' stato piu' volte posto il problema di quale condotta l'amministrazione debba adottare, laddove il beneficiario del pagamento sia risultato inadempiente a seguito della verifica inopinatamente effettuata.Nell'ipotesi delineata, si ritiene che l'amministrazione, al fine di non recare un indebito nocumento al beneficiario, possa comunque dare seguito al pagamento senza attendere il termine di trenta giorni di cui all'art. 3, comma 4, del decreto ministeriale n. 40/2008.Naturalmente, anche allo scopo di non pregiudicare l'attivita' di riscossione, l'amministrazione comunichera' formalmente a Equitalia servizi S.p.a. - e, nel caso sia gia' stato notificato l'atto di pignoramento ai sensi dell'art. 72-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 602/1973, anche al competente agente della riscossione - di aver proceduto o di essere in procinto di procedere al pagamento a favore del beneficiario, affinche' possa essere evitata l'attivazione della prevista procedura esecutiva.La suddetta comunicazione dovra' risultare adeguatamente motivata, soprattutto allo scopo di consentire gli opportuni riscontri in sede di controllo.Dal canto suo, l'agente della riscossione, preso atto della comunicazione ricevuta, disporra' l'estinzione della procedura gia' avviata, provvedendo nel contempo ad avviare le opportune iniziative parimenti dirette alla riscossione dei crediti indicati nelle cartelle di pagamento inesitate.Trattamento di fine rapporto.Sono state pure sollevate perplessita' in ordine al caso in cui il trattamento di fine rapporto, a causa del decesso del lavoratore, venga pagato ad un soggetto diverso.Al riguardo, appare utile premettere che, in caso di morte del prestatore di lavoro, le indennita' di mancato preavviso e di fine rapporto (articoli 2118 e 2120 del codice civile), che sarebbero spettate al lavoratore se il rapporto di lavoro si fosse sciolto prima del decesso, spettano nella stessa misura ai superstiti indicati al primo comma dell'art. 2122 del codice civile.In tale ipotesi, gli aventi diritto acquisiscono, di conseguenza, il diritto a percepire le suddette indennita' iure proprio e non per successione.Le indennita' di fine rapporto e di mancato preavviso, infatti, a differenza di quanto avviene per altre spettanze comunque connesse al rapporto di lavoro (come, ad esempio, gli emolumenti arretrati, lo straordinario, le ferie non godute, eccetera), non vengono ripartite in base alla disciplina in materia di successione mortis causa.Cio' posto, si ritiene che la verifica prevista dall'art. 48-bis debba essere effettuata solamente in capo al soggetto (o ai soggetti)cui, in base all'art. 2122 del codice civile, spettano le indennita' in discorso (o quota parte di esse), mentre, in mancanza delle persone indicate nel primo comma del citato art. 2122 del codice civile, si applicano le regole ordinarie, giusta pronunciamento della Corte costituzionale con sentenza n. 8 del 19 gennaio 1972.Analoghe considerazioni valgono, ovviamente, anche per il trattamento di fine servizio.Validita' della liberatoria.Appare utile, infine, fornire alcune precisazioni in merito alla validita' temporale della verifica effettuata secondo le modalita' indicate dal decreto ministeriale n. 40/2008.Puo' infatti accadere che l'amministrazione, per svariati motivi, eroghi le somme relative ad un determinato pagamento anche a distanza di tempo dall'effettuazione della predetta verifica.Nel precisare che, ai fini in discorso, assume comunque primaria importanza il momento di emissione del mandato di pagamento - in quanto, non infrequentemente, l'effettiva erogazione delle somme dovute, sotto il profilo temporale, puo' essere influenzata da circostanze indipendenti dalla volonta' del debitore - si e' dell'avviso che, salvo casi eccezionali e contingenti da motivare adeguatamente, la verifica di cui all'art. 48-bis vada effettuata a ridosso del mandato di pagamento stesso.Infine, e' opportuno precisare che, nel caso di una pluralita' di pagamenti nei confronti del medesimo beneficiario - salva l'ipotesi di pagamenti contestuali, nel qual caso, per evidenti ragioni di economia procedimentale, potra' ritenersi sufficiente la stessa liberatoria per tutti i pagamenti in questione - un'unica liberatoria non e' idonea a soddisfare le prescrizioni di cui all'art. 48-bis. La predetta verifica, infatti, dovra' essere espletata con riguardo a ciascuno dei pagamenti da effettuare.Roma, 8 ottobre 2009
Il Ragioniere generale dello Stato: Canzio
Il direttore generale delle finanze: Lapecorella
Allegato A
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