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ALTALEX NEWS


venerdì 6 novembre 2009

Anche il bacio o il palpamento per gioco integra il reato di violenza sessuale

Anche il bacio o il palpamento per gioco integra il reato di violenza sessuale
Cassazione penale , sez. III, sentenza 12.10.2009 n° 39718


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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE
Sentenza 17 giugno - 12 ottobre 2009, n. 39718
Svolgimento del processo
Motivi della decisione
OSSERVA
1) Con sentenza del 21.10.2008 la Corte di Appello di Venezia confermava la sentenza del GIP del Tribunale di Venezia in data 25.10.2005, con la quale B.E., previo riconoscimento della circostanza attenuante di cui all'art. 609 bis c.p., u.c. e delle circostanze attenuanti generiche ed applicata la diminuente per la scelta del rito, era stato condannato alla pena di mesi 10 di reclusione per il reato di cui all'art. 609 bis c.p. in danno di Bo.Ba.; pena sospesa.
Dopo aver richiamato la ricostruzione della vicenda operata dal GIP (la Bo. era stata assalita improvvisamente mentre era intenta, nel locale in cui lavorava, alla mescita del vino al tavolo, dove con alcuni amici sedeva il B., il quale mettendole le mani sui glutei l'aveva attirata a sè facendola sedere sulle sue ginocchio, afferrandole e palpeggiandole i seni), riteneva la Corte che non vi fosse stato alcun uso distorto dei poteri, riconosciuti al giudice dall'art. 441 c.p., comma 5, nell'acquisizione delle dichiarazioni testimoniali della parte offesa. Secondo la Corte territoriale infatti l'art. 441 c.p., comma 5 introduce nel rito abbreviato, al pari di quanto previsto per il dibattimento dall'art. 507 c.p.p., un meccanismo a tutela dei valori costituzionali di legalità che presiedono all'esercizio dell'azione penale. Il principio dispositivo ha nel processo soltanto una funzione espansiva del potere della parti ma non preclusiva dell'accertamento dei fatti.
Tanto premesso, riteneva la Corte assolutamente attendibile la versione dei fatti fornita dalla parte offesa, la quale, se avesse avuto intenti calunniatori, non si sarebbe di certo azzardata a presentare querela citando come testimoni i presenti (amici dell'imputato), i quali avrebbero potuto smentirla.
Non attendibili apparivano, invece, le dichiarazioni dei predetti i quali, contraddittoriamente, avevano palesemente cercato di ridimensionare il gesto dell'amico, precisando che si era trattato di uno scherzo.
Infine, secondo la Corte territoriale, non c'era dubbio alcuno che la condotta posta in essere dall'imputato rientrasse nella nozione di atto sessuale, inteso in senso oggettivo, come aggressione alla sfera sessuale del soggetto passivo.
2) Propone ricorso per cassazione il B., a mezzo del difensore, denunciando con il primo motivo la violazione di legge in relazione all'art. 178 c.p.p., lett. c) o art. 191 c.p.p. ovvero sollevando questione di illegittimità costituzionale dell'art. 441 c.p.p., comma 5.
Una lettura costituzionalmente orientata di tale norma non può che far ritenere che il giudice possa esercitare i poteri di integrazione probatoria soltanto se necessario. Una diversa lettura violerebbe il principio del giudice terzo ed imparziale e contrasterebbe con gli artt. 24, 11 e 3 Cost..
Secondo la proposta interpretazione dell'art. 441 c.p.p., comma 5 non può che competere al giudice di appello il controllo del requisito della necessità di acquisizione dei nuovi elementi probatorii con possibile alternativa sanzione processuale di nullità ex art. 178 c.p.p. oppure di inutilizzabilità ex art. 191 c.p.p. del materiale acquisito.
Non c'è dubbio che la contraddittorietà probatoria rilevata dal GIP per disporre l'esame della parte offesa, lungi dal costituire motivo per esercitare i poteri di cui all'art. 441 c.p.p., comma 5, avrebbe dovuto portare all'assoluzione dell'imputato.
Non prevedendo tale norma il diritto alla controprova, una diversa (rispetto a quella proposta) interpretazione non si sottrarrebbe alla eccepita incostituzionalità.
Con il secondo motivo denuncia il vizio di mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione. Con i motivi di appello era stata dedotta la completa inattendibilità della parte offesa e, per contro, la piena attendibilità dei testi in ordine alle modalità della condotta posta in essere dal B.; la motivazione della sentenza tace completamente su tali rilievi. Non vi è prova di palpeggiamenti dei glutei e dei seni.
Con il terzo motivo deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione all'art. 609 bis c.p.. Non qualsiasi contatto con zona erogena costituisce atto sessuale.
A seguito del gesto scherzoso del ricorrente che attirò a sè la p.o. vi fu solo un contatto glutei-ginocchio che palesemente non può essere qualificato come atto sessuale.
Con il quarto motivo denuncia il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell'elemento psicologico del reato. Non vi fu alcuna coartazione della libertà di autodeterminazione sessuale, avendo l'imputato agito con intento scherzoso (tale atteggiamento esclude il fine di concupiscenza).
Chiede, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata.
3) Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato.
3.1) Quanto all'eccezione di nullità e/o inutilizzabilità del materiale acquisito dal GIP a seguito della disposta integrazione probatoria, venendo denunciata la violazione di norme processuali il giudice di legittimità è giudice anche del fatto.
Tanto premesso, rileva, innanzitutto, il Collegio che il ricorrente parte da un presupposto erroneo e cioè che le affermazioni della Bo., contenute nell'atto di querela, fossero state smentite dai testi.
Il Gip, nel disporre l'integrazione probatoria evidenziava che la Bo. non era stata sentita a s.i.t. in sede di indagini preliminari e che, comunque, appariva necessario esaminare la predetta, per la delicatezza della contestazione, essendo emerse "circostanze non propriamente collimanti con quanto illustrato nell'atto di querela".
La presenza di circostanze non collimanti non significava ovviamente che vi fosse un contrasto insanabile, tale da giustificare una pronuncia assolutoria ex art. 530 cpv. c.p.p. per contraddittorietà degli elementi probatori acquisiti.
L'inesistenza di siffatto presunto contrasto viene ribadita, come si vedrà meglio in seguito, dalla Corte territoriale, secondo cui i testi addotti dall'imputato non avevano affatto smentita la ipotesi accusatoria, essendo piuttosto le loro dichiarazioni evasive (soprattutto in ordine alle frasi pronunciate dal B.) e contrastanti tra di loro.
Essendo utilizzabili tutti gli atti legittimante acquisiti nella fase delle indagini preliminari, non c'è dubbio alcuno che potesse essere valutato come fonte di prova il contenuto dell'atto di querela, che, come si è visto, non era stato affatto smentito dall'altro materiale probatorio acquisito.
La decisione di disporre la integrazione probatoria ex art. 441 c.p.p., comma 5, lungi dal "danneggiare" l'imputato, si risolveva quindi in una indubbia garanzia difensiva, venendo la Bo. sentita in contraddittorio, con la possibilità per la difesa di procedere al controesame della stessa e di far emergere, anche attraverso il meccanismo delle contestazioni, la inattendibilità del contenuto dell'atto di querela.
3.1.1) Ha evidenziato la Corte territoriale che l'art. 441 c.p.p., comma 5 introduce nel rito abbreviato un meccanismo analogo a quello previsto dall'art. 507 c.p.p. per il dibattimento a tutela dei valori costituzionali di legalità che presiedono all'esercizio dell'azione penale.
In relazione specificamente all'art. 507 c.p.p. la Corte Costituzionale, nel respingere l'eccezione di incostituzionalità di detta norma, assumeva "che i giudici rimettenti muovevano da una concezione alla stregua della quale il nuovo codice processuale non tenderebbe alla ricerca della verità ma solo ad una decisione correttamente presa in una contesa dialettica tra le parti, secondo un astratto modello accusatorio nel quale un esito vale l'altro, purchè correttamente ottenuto. E' ben vero che l'esigenza di accentuare la terzietà del giudice - perciò programmaticamente ignaro dei precedenti sviluppi della vicenda procedimentali - ha condotto ad introdurre, di massima, un criterio di separazione funzionale delle fasi processuali, allo scopo di privilegiare il metodo orale di raccolta delle prove, concepito come strumento per favorire la dialettica del contraddittorio e la formazione nel giudice di un convincimento libero da influenze pregresse. Ma tale opzione metodologica non ha fatto trascurare che fine primario ed ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità, e che ad un ordinamento improntato al principio di legalità, nonchè al connesso principio di obbligatorietà dell'azione penale non sono consone norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione. Il potere conferito al giudice dall'art. 507 c.p.p. è, dunque, un potere suppletivo, ma non certo eccezionale. La configurazione del siffatto potere come eccezionale, e quindi da escludere in caso di decadenza o inattività delle parti, discende, nella logica presupposta dai giudici remittenti, dall'assunzione dell'immanenza del nuovo codice, come conseguenza della scelta accusatola, di un principio dispositivo in materia di prova. Si tratta, però, di un assunto che non trova riscontro nè nei principi della delega nè nel tessuto normativo concretamente disegnato nel codice. Il legislatore delegante ha cioè esattamente considerato, in armonia con l'eliminazione delle disuguaglianze di fatto posto dall'art. 3 Cost., comma 2, - che la parità della armi delle parti normativamente enunciata può talvolta non trovare concreta verifica nella realtà effettuale, sì che il fine della giustizia della decisione può richiedere un intervento riequilibrante del giudice atto a supplire alle carenze di taluna di esse, così evitando condanne o assoluzioni immeritate" (Corte Cost. 26 marzo 1993 n. 111, Azzari).
Anche la giurisprudenza di questa Corte, dopo alcune contrastanti decisioni, è ormai consolidata nel ritenere (pur alla luce della nuova formulazione dell'art. 111 Cost.) che il giudice possa esercitare il potere di disporre d'ufficio l'assunzione di nuovi mezzi prova, previsto dall'art. 507 c.p.p., anche con riferimento a quelle prove che le parti avrebbero potuto richiedere e non hanno richiesto, rimanendo comunque impregiudicata la facoltà della parti di richiedere l'ammissione di nuovi mezzi di prova ai sensi dell'art. 495 c.p.p., comma 2 (Cass. sez. un. n. 41281 del 17.10.2006). Tale decisione ribadisce il principio già enunciato dalle stesse sezioni unite con la sentenza n. 11227 del 6.11.1992, secondo cui l'esercizio del potere previsto dall'art. 507 c.p.p. può essere esercitato anche con riferimento alle prove che le parti avrebbero potuto richiedere e che alla ammissione della prova ex art. 507 c.p.p. il "giudice non potrebbe non far seguire l'ammissione anche delle eventuali prove contrarie".. Una interpretazione costituzionalmente orientata delle norme che prevedono poteri istruttori da parte del giudice comporta, invero, il riconoscimento del diritto alla prova contraria.
E difatti questa Corte, applicando tali principi al rito abbreviato, da un lato, ha ritenuto che "il potere integrativo istruttorio del giudice previsto dall'art. 441 c.p.p., comma 5 è esercitarle anche nel momento stesso in cui viene disposto il giudizio abbreviato, difettando una qualunque previsione in senso contrario e considerato che, sulla base degli atti, il giudice può sin dal primo momento valutare la necessità di acquisire ulteriori elementi necessari alla decisione" (Cass. sez. 6 n. 36236 del 7.7.2004, Mascarucci) e, dall'altro, ha affermato che all'imputato "che abbia richiesto il rito speciale senza integrazioni probatorie deve riconoscersi, nel caso in cui il giudice assuma d'ufficio nuovi elementi necessari alla decisione, il diritto alla controprova..... secondo una ragionevole analogia con l'interpretazione giurisprudenziale dell'art. 507 c.p.p." (Cfr. Cass. sez. 5 n. 11954 dell'8.2.2005, Marino; cass., sez. 5 n. 19388 del 9.5.2006).
Una siffatta interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 441 c.p.p., comma 5 rende manifestamente infondata la denunciata incostituzionalità della norma. Peraltro la stessa Corte Costituzionale, nel dichiarare la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 438 c.p.p., comma 5 sollevata con riferimento all'art. 111 c.p.p., comma 2 (nella parte in cui non prevede il diritto del PM. di chiedere l'ammissione di prova contraria nell'ipotesi in cui l'imputato abbia depositato il fascicolo delle investigazioni difensive e contestualmente formulato richiesta di giudizio abbreviato) ha "suggerito" di esplorare la concreta praticabilità delle soluzioni offerte dall'ordinamento al fine di porre rimedio alla denunciata anomala sperequazione tra accusa e difesa (cfr. ordinanza n. 245 del 2005). Ha evidenziato, invero, la Corte che "il remittente, nell'esprimere le ragioni per cui il potere di assumere, eventualmente anche d'ufficio, gli elementi necessari alla decisione, attribuito al giudice dall'art. 441 c.p.p., comma 5, non sarebbe idoneo a rendere la disciplina censurata conforme a Costituzione, trascura di considerare che nel nuovo giudizio abbreviato il potere di integrazione probatoria è configurato quale strumento di tutela dei valori costituzionali che devono presiedere l'esercizio della funzione giurisdizionale, sicchè proprio a tale potere il giudice dovrebbe far ricorso per rassicurare il rispetto di quei valori". 3.2) La L. 15 febbraio 1996, n. 66 ha unificato la congiunzione carnale violenta e gli atti di libidine previsti dalla normativa previgente nella nozione unitaria di atti sessuali, collocando detti reati tra i delitti contro la persona invece che tra quelli contro la moralità pubblica ed il buon costume. La sfera sessuale, quindi, diventa diritto della persona di gestire liberamente la propria sessualità, con la conseguenza che la condotta rilevante penalmente va valutata in relazione al rispetto dovuto alla persona ed all'attitudine ad offendere la libertà di determinazione della stessa. Non c'è dubbio, pertanto, come ribadito anche di recente da questa Corte (cfr. Cass. sez. 3 n. 28815 del 9.5.2008, Belli) che "la ratio e la lettera della norma inducono a dare di atti sessuali una nozione "oggettiva", facendovi rientrare cioè tutti quegli atti che siano oggettivamente idonei ad attentare alla libertà sessuale del soggetto passivo con invasione della sua sfera sessuale. L'aggettivo sessuale attiene al sesso dal punto di vista anatomico, fisiologico o funzionale, ma non limita la sua valenza ai puri aspetti genitali, potendo estendersi anche a tutte le altre zone ritenute erogene dalla scienza non solo medica, ma anche psicologica, antropologica e sociologica (cfr. ex multis Cass. pen. sez. 3 n. 25112/2007; Cass. pen. sez. 3 11.1.2006 - Beraldo; Cass. sez. 3 1.12.2000, Gerardi; Cass. sez. 3 n. 7772/2000, Calò). Sicchè nella nozione di atti sessuali debbono farsi rientrare tutti quelli che siano idonei a compromettere la libera determinazione della sessualità della persona e ad invadere la sua sfera sessuale (in questa facendo rientrare anche le zone erogene) con modalità connotate dalla costrizione (violenza, minaccia o abuso di autorità), sostituzione ingannevole di persona, ovvero abuso di inferiorità fisica o psichica. Tra gli atti idonei ad integrare il delitto di cui all'art. 609 bis c.p. vanno ricompresi anche quelli insidiosi e rapidi, purchè ovviamente riguardino zone erogene su persona non consenziente (come ad es. palpamenti, sfregamenti, baci)- cfr. Cass. pen. sez. 3 n. 549/2005. Per quanto riguarda l'elemento soggettivo è significativo che la normativa introdotta con la L. n. 66 del 1996 abbia eliminato ogni riferimento al concetto di libidine La relazione al codice con riferimento all'art. 521 c.p. faceva riferimento allo "sfogo dell'appetito di lussuria" e la dottrina prevalente riteneva atti di libidine quelli, diversi dalla congiunzione carnale, diretti ad eccitare la concupiscenza verso piaceri carnali, turpi per se stessi o per le circostanze in cui si cerca di provocarli, ovvero diretti a soddisfare tale concupiscenza. Peraltro già sotto l'imperio della disciplina previgente qualche pronuncia aveva ritenuto che nella previsione dell'art. 521 c.p. non fosse richiesto il fine di eccitare o soddisfare la propria libidine. "Tale fine è estraneo alla lettera ed allo spirito della norma, la quale ha per oggetto la tutela della libertà sessuale del soggetto costretto o indotto; onde è indifferente che chi costringe o induce lo faccia per lucro, per depravazione, per disprezzo, per immondo gusto dello spettacolo o per gioco, purchè egli agisca con la coscienza e volontà di costringere od indurre taluno a commettere atti di libidine su sè stesso, sulla persona del colpevole o su altri.." (cfr. Cass. pen. sez. 1, 25.11.1971 n. 843, Amato ed altri).
Tale pronuncia era in qualche modo anticipazione (con il riferimento alla libertà sessuale) e si inseriva nel dibattito culturale che avrebbe poi portato all'approvazione della nuova normativa.
Non c'è dubbio alcuno, allora, che l'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 609 bis c.p. consista nella coscienza e volontà di compiere un atto lesivo della libertà sessuale della persona e di invadere la sua sfera sessuale senza il consenso della stessa (dolo generico). Irrilevante pertanto è il fine propostosi dal soggetto attivo che può essere diretto a soddisfare la sua concupiscenza, ma anche di altro genere (ludico o di umiliazione della vittima)". 3.2.1) Tanto premesso, i giudici di merito correttamente hanno ritenuto che la condotta posta in essere dal B. vada qualificata come atto sessuale.
Va ricordato che, pacificamente, nell'ipotesi di conferma della sentenza di primo grado, le due motivazioni si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre far riferimento per giudicare della congruità della motivazione.
Allorchè quindi le due sentenze concordino nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella, precedente per formare un unico complesso corpo argomentativo (cfr. ex multis Cass. sez. 1 n. 8868 del 26.6.2000 - Sangiorgi).
Il GIP aveva già evidenziato che dalle dichiarazioni, pienamente attendibili della parte offesa, emergeva che la condotta posta in essere dal B. era consistita nel mettere le mani sui glutei della Bo. facendola sedere a forza sulle sue ginocchio e tenendola stretta a contatto con il suo corpo, e nell'afferrare e palpeggiare i seni della donna. Secondo il GIP l'aggressione alla sfera sessuale della Bo. era, oltre che dal l'oggettività della condotta, ulteriormente confermata dalle frasi pronunciate dall'imputato. Il B. aveva infatti esclamato "nessuno ha il coraggio di farlo, lo faccio io" e poi, dopo gli avvenuti palpeggiamenti, "Tutto qua? Non sei nemmeno un gran che, pensavo fossi meglio". Tali frasi trovavano spiegazione nella circostanza, pure emersa, che la Bo. si era sottoposta ad un intervento di tipo estetico al seno.
Dopo la disamina delle risultanze processuali, riteneva il GIP, con argomentazioni logiche e coerenti, che il B., avesse voluto mettersi in evidenza davanti agli amici, ponendo in essere la condotta descritta nel capo di imputazione per "verificare" gli esiti dell'intervento estetico.
La Corte di Appello ha confermato il giudizio di piena attendibilità della Bo. sottolineando, in particolare, che se la donna avesse voluto calunniare il B. per trarne "profitto", non "avrebbe dovuto collocare l'aggressione in un contesto del genere ed indicare degli amici di B. a riscontro delle false accuse".
E non ha affatto escluso che vi siano stati i palpeggiamenti al seno, essendosi limitata ad affermare che il B. "quantomeno ha palpeggiato i glutei della Bo." (pag. 9). Che vi siano stati i palpeggiamenti è confermato, anche secondo la Corte territoriale dalla frase sopra riportata, che non sarebbe stata pronunciata dall'imputato "se non avesse palpeggiato la donna" (pag. 13).
La Corte di merito ha, quindi, esaminato (anche comparativamente) le dichiarazioni dei testi, pervenendo, con argomentazioni corrette ed immuni da vizi logici, ad un giudizio di complessiva inattendibilità degli stessi.
Ha infatti evidenziato che il contrasto tra le accuse della querelante e le dichiarazioni di Z., C., M. e Ma. non sono affatto insuperabili: essi infatti, tutti amici del B., sentiti dai carabinieri cercarono di ridimensionare la gravità del fatto, incorrendo però in contraddizioni ed inverosimiglianze. E significativo, peraltro, secondo la Corte territoriale che i testi sopraindicati non ricordino la frase pronunciata dall'imputato "fortemente allusiva ad un toccamento in zone erogene" (frase che, peraltro, neppure l'imputato ha escluso di aver pronunciato, limitandosi anche egli ad affermare di non ricordarla).
3.2.2) Con il ricorso viene sostanzialmente prospettata una diversa lettura delle risultanze processuali. Tali prospettazioni non tengono conto, però, che il controllo demandato alla Corte di legittimità va esercitato sulla coordinazione delle proposizioni e dei passaggi attraverso i quali si sviluppa il tessuto argomentativo del provvedimento impugnato, senza alcuna possibilità di rivalutare in una diversa ottica, gli argomenti di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento o di verificare se i risultati dell'interpretazione delle prove siano effettivamente corrispondenti alle acquisizioni probatorie risultanti dagli atti del processo. La Corte di legittimità ha, quindi, solo il compito di verificare che siano razionali le argomentazioni giustificative relative ai dati empirici assunti dai giudici di merito come elementi di prova, alle inferenze formulate ed ai criteri posti a sostegno dei risultati probatori.
Anche a seguito della modifica dell'art. 606 c.p.p., lett. e), con la citata L. n. 46 del 2006, il sindacato della Corte di Cassazione rimane di legittimità: la possibilità di desumere la mancanza, contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione anche da "altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame", non attribuisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare criticamente le risultanze istruttorie, ma solo quello di valutare la correttezza dell'iter argomentativo seguito dal giudice di merito e di procedere all'annullamento quando la prova non considerata o travisata incida, scardinandola, sulla motivazione censurata (cfr. Cass. pen. sez. 6 n. 752 del 18.12.2006; Cass. pen. sez. 2 n. 23419/2007 - Vignaroli).
3.2.3) Essendo sufficiente il dolo generico, non c'è dubbio alcuno che il ricorrente avesse, pienamente, la coscienza e volontà di compiere atti lesivi della libertà sessuale, come è reso evidente dalla più volte ricordata frase da lui stesso pronunciata.
E' irrilevante, come si è visto, che nell'aggressione alla sfera sessuale della Bo. il B. si proponesse di soddisfare la propria concupiscenza sessuale o volesse semplicemente compiere un'azione "dimostrativa" in presenza degli amici. Sul punto, trattandosi di questione di diritto, va precisata ed integrata la motivazione della sentenza impugnata.
3.3) Al rigetto del ricorso segue la condanna alla spese processuali, nonchè alla rifusione delle spese sostenute in questa fase dalla costituita parte civile, che si liquidano, come da richiesta, in complessivi Euro 2.450,00 oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dedotta. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese a favore della parte civile liquidate in complessivi Euro 2.450,00, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 17 giugno 2009.
Depositato in Cancelleria il 12 ottobre 2009

Fin dove ci si può spingere per non violare l'altrui "libertà sessuale"?
La Terza Sezione Penale della Cassazione, con la sentenza del 12 ottobre 2009, n. 39718, torna ancora una volta a pronunciarsi sul reato di violenza sessuale, ribadendo l’orientamento già espresso in altre occasioni.
Nella specie la Suprema Corte si è occupata del ricorso di un quarantenne di Venezia, condannato a dieci mesi di reclusione (pena sospesa e riconoscimento delle attenuanti generiche) per violenza sessuale nei confronti di una barista.
La ragazza, ricostruisce la sentenza in esame, si era sottoposta ad un intervento di chirurgia plastica al seno e l'uomo, "per verificare gli esiti" del ritocco l'aveva presa sulle ginocchia e le aveva palpeggiato il seno dicendole: 'nessuno ha il coraggio di farlo, lo faccio io'. Era seguita la pagella sul 'ritocco': 'Tutto qua, non sei un granché'.
Nella dettagliata sentenza, i supremi giudici scrivono che "l'aggettivo sessuale attiene al sesso dal punto di vista anatomico, fisiologico o funzionale, ma non limita la sua valenza ai puri aspetti genitali, potendo estendersi anche a tutte le altre zone ritenute erogene dalla scienza non solo medica, ma anche psicologica, antropologica e sociologica". Quindi, "nella nozione di atti sessuali - evidenziano - debbono farsi rientrare tutti quelli che siano idonei a compromettere la libera determinazione della sessualità della persona e ad invadere la sua sfera sessuale con modalità connotate dalla costrizione".
Tra gli atti puniti dall' art. 609 bis c.p., "vanno ricompresi anche quelli rapidi e insidiosi, purché ovviamente riguardino zone erogene su persona non consenziente", "palpamenti, sfregamenti, baci", elencano i giudici. "E’ indifferente che chi costringe o induce lo faccia per lucro, per depravazione, per disprezzo, per immondo gusto dello spettacolo o per gioco, purché si agisca con la coscienza e volontà di costringere o indurre taluno a commettere atti di libidine su se stesso, sulla persona del colpevole o su altri", sintetizzano i supremi giudici. Ecco perché è "irrilevante il fine propostosi dal soggetto attivo che può essere diretto a soddisfare la sua concupiscenza, ma anche di altro genere (ludico o di umiliazione della vittima)".
Nel caso in questione è stato del tutto inutile il ricorso in Cassazione del quarantenne (già condannato dalla Corte d'Appello di Venezia nell'ottobre 2008) volto a dimostrare che nei confronti della barista aveva fatto solo "un gesto scherzoso" visto che attirando a sé la ragazza "vi fu solo un contatto glutei-ginocchia che palesemente non può essere qualificato come atto sessuale".
La Suprema Corte in nove pagine di motivazione ha spiegato che quel gesto, fatto per spavalderia davanti agli amici, non rientra nel 'bon ton' sessuale. "E' irrilevante - hanno scritto - che nell'aggressione alla sfera sessuale si proponesse di soddisfare la propria concupiscenza sessuale o volesse semplicemente compiere un'azione dimostrativa in presenza di amici". E' stata compressa la "libertà sessuale" della ragazza, il che basta per fare scattare la condanna.
(Altalex, 5 novembre 2009. Nota di Cesira Cruciani)

Decreto di espulsione va tradotto salvo l'attestazione motivata della impossibilità

Decreto di espulsione va tradotto salvo l'attestazione motivata della impossibilità
Cassazione civile , sez. I, ordinanza 07.10.2009 n° 21357

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Ordinanza 22 maggio - 7 ottobre 2009, n. 21357(Presidente Salmè - Relatore Giusti)Ritenuto
che il relatore designato, nella relazione depositata il 13 febbraio 2009, ha formulato la seguente proposta di definizione:“L'Ufficio territoriale del Governo di Savona, in persona del Prefetto pro-tempore, ha proposto ricorso per cassazione avverso l'ordinanza in data 26 febbraio 2007 con cui il Giudice di pace di Savona, in accoglimento dell'opposizione proposta dalla cittadina brasiliana S. C. A. P., ha annullato il provvedimento di espulsione emesso, nei suoi confronti, dal Prefetto di Savona il 10 maggio 2006.Il ricorso dell'Ufficio territoriale è affidato a quattro motivi di censura.L'intimata non ha svolto attività difensiva in questa sede.Il primo ed il quarto motivo sono manifestamente fondati. Per un verso, non rileva la circostanza, valorizzata invece dal giudice a quo, che la straniera, durante la sua breve permanenza in Italia, abbia espletato una attività lavorativa e condotto una vita dignitosa: secondo la giurisprudenza di questa Corte (Sez. I, 25 febbraio 2004, n. 3746), nell'ipotesi di espulsione dello straniero che si trattenga nel territorio dello Stato senza avere chiesto il permesso di soggiorno nel termine prescritto, il decreto di espulsione costituisce un atto a carattere vincolato, la cui adozione non richiede dunque l'accertamento e la valutazione da parte del prefetto della ricorrenza di ulteriori ragioni giustificative dell'adozione della misura. Per l'altro verso, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice a quo, all'omessa consegna al cittadino straniero, al momento del suo ingresso in territorio italiano, della nota scritta illustrativa dei suoi diritti e dei suoi doveri relativi all'ingresso ed al soggiorno in Italia, prevista dall'art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998, non è espressamente collegato alcun effetto sanzionatorio e deve escludersi che da tale violazione possa inferirsi l'efficacia sanante della condizione d'irregolarità del soggiorno in Italia dello straniero privo di regolare permesso, giacché la scelta dello straniero di fare ingresso in Italia per motivi di turismo comporta l'insorgenza, a carico del medesimo, dell'onere di assumere informazioni circa la normativa vigente in Italia (cfr. Cass., Sez. I, 16 marzo 2006, n. 5825).Il secondo motivo di ricorso è manifestamente fondato.Il Giudice di pace ha annullato il provvedimento prefettizio - tradotto in spagnolo - per mancata traduzione nella lingua madre (il portoghese) dell'espulsa. Il Giudice di pace non ha preso in considerazione l'attestazione dell'Amministrazione circa l'impossibilità di reperire in tempi brevi un interprete di lingua conosciuta dalla persona straniera. Il Giudice di pace si è cosi allontanato dal principio di diritto - costante nella giurisprudenza di questa Corte (Sez. I, 29 novembre 2006, n. 25362) - secondo cui, in tema di espulsione amministrativa dello straniero, l'obbligo dell'autorità procedente di tradurre la copia del relativo decreto nella lingua conosciuta dallo straniero stesso è derogabile tutte le volte in cui detta autorità attesti e specifichi le ragioni per le quali tale operazione sia impossibile e si imponga la traduzione nelle lingue predeterminate dalla norma di cui all'art. 13, comma 7, del d.lgs. 286 del 1998 (francese, inglese, spagnolo), atteso che tale attestazione è nel contempo, condizione non solo necessaria, ma anche sufficiente a che il decreto di espulsione risulti immune da vizi di nullità senza che il giudice di merito possa ritenersi autorizzato a sindacare le scelte della P.A. in termini di concrete possibilità di effettuare immediate traduzioni nella lingua dell'espellendo. In particolare, come chiarito dall'art. 3 del d.P.R. n. 334 del 2004, che detta norme regolamentari e di attuazione del citato art. 13, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998, sempre che il giudice non accerti la sufficiente conoscenza da parte dello straniero della lingua italiana, l'attestazione da parte dell'autorità procedente della indisponibilità di personale idoneo alla traduzione nella lingua conosciuta dallo straniero della sintesi del contenuto del decreto di espulsione è condizione sufficiente per la validità della traduzione in una delle predette tre lingue, per le quali l'interessato abbia indicato preferenza.Anche il terzo motivo appare manifestamente fondato, perché il provvedimento del questore di intimazione a lasciare il territorio dello Stato entro cinque giorni non è soggetto a convalida da parte del giudice ordinario. È costante nella giurisprudenza di questa Corte (Sez. Un., 18 ottobre 2005, n. 20121) il principio secondo cui il provvedimento con il quale il questore, ai sensi dell'art. 14, comma 5-bis, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ordina allo straniero colpito da provvedimento prefettizio di espulsione di lasciare il territorio dello Stato entro cinque giorni, non è suscettibile di autonoma impugnazione davanti all'autorità giudiziaria ordinaria con il procedimento previsto per l'opposizione all'espulsione dall'art. 13 del medesimo d.lgs., non essendo ammissibile una indeterminata espansione dei mezzi di tutela tassativamente indicati dalla legge. Né ciò comporta una carenza di tutela giurisdizionale, in quanto, da un lato, la predetta intimazione non incide sulla liberta personale dell'espulso (non ristretto presso un centro di permanenza temporanea, né sottoposto all'accompagnamento coattivo alla frontiera) e, pertanto, non comporta l'adozione degli strumenti giurisdizionali di controllo espressamente previsti per le convalide delle misure restrittive; dall'altro, il controllo sulla sussistenza dei presupposti per adottare l'intimazione è demandato al giudice penale nell'ambito del giudizio sull'imputazione ascritta al soggetto espulso che si sia trattenuto senza giustificato motivo nel territorio dello Stato in violazione dell'ordine impartito dal questore, potendo, in quella sede, l'autorità giudiziaria disapplicare, ai sensi dell'art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, l'atto presupposto che sia stato assunto illegittimamente”.
Considerato
che il Collegio non condivide la proposta di definizione contenuta nella relazione depositata;che, in particolare, con riferimento alla questione della mancata traduzione, articolata con il secondo motivo, il Giudice di pace ha rilevato che il decreto prefettizio è stato redatto in lingua italiana e spagnola, sulla presunzione che l'espellenda conoscesse tali idiomi, mentre la lingua conosciuta dalla stessa risulta essere quella portoghese, lingua ufficiale del Brasile;che la questione della presenza, nella relata di notifica del decreto di espulsione, di una attestazione della Amministrazione nel senso della impossibilità della immediata disponibilità di un traduttore ed interprete ufficiale nella lingua madre della cittadina straniera, e della sufficienza di essa a rendere valido il decreto, è proposta per la prima volta in cassazione, non risultando che di essa si sia discusso nel giudizio di merito;che, quindi, il motivo che veicola detta censura è inammissibile;che, pertanto, poiché nell'ordinanza del Giudice di pace la mancata traduzione del decreto di espulsione è ragione sufficiente della invalidità dello stesso e, in questa parte, la pronuncia impugnata si sottrae alla censura dell'Amministrazione, il ricorso, nel suo complesso, va respinto, restando assorbito l'esame delle altre doglianze;che nessuna pronuncia sulle spese deve essere emessa, non avendo l'intimata svolto attività difensiva in questa sede.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.






Un cittadino brasiliano può essere espulso dal territorio italiano se non conosce la lingua spagnola (tenuto conto del fatto che la lingua ufficiale del Brasile è il portoghese)?
Sul quesito si è espressa recentemente la Suprema Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 21357 depositata il 7 ottobre u.s.
La natura del provvedimento di espulsione
Il provvedimento di espulsione, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, è provvedimento obbligatorio a carattere vincolato sicchè il giudice ordinario dinanzi al quale esso venga impugnato è tenuto unicamente a controllare l'esistenza, al momento dell'espulsione, dei requisiti di legge che ne impongono l'emanazione, i quali consistono nella mancata richiesta in assenza di cause di giustificazione del permesso di soggiorno, ovvero nella sua revoca od annullamento o nella mancata tempestiva richiesta di rinnovo che ne abbia comportato il diniego.
Non è invece consentita al giudice investito dell'impugnazione del provvedimento di espulsione alcuna valutazione sulla legittimità del provvedimento del questore che abbia rifiutato, revocato o annullato il permesso di soggiorno ovvero ne abbia negato il rinnovo poichè tale sindacato spetta al giudice amministrativo, la cui decisione non costituisce in alcun modo un antecedente logico della decisione sul decreto di espulsione.
Sull’argomento, la giurisprudenza (Cass. civ., sez. un., 18 ottobre 2005, n. 20125; Cass. civ., sez. I, 29 dicembre 2005, n. 28869; Cass. civ., sez. un., 16 ottobre 2006, n. 22217; Cass. civ., sez. un., 23 ottobre 2006, n. 22663) ritiene che il giudice dell'espulsione è tenuto solo a verificare la carenza di un titolo che giustifichi la presenza dello “straniero” sul territorio nazionale, non anche la regolarità dell'azione amministrativa svolta al riguardo, le cui carenze non possono essere dedotte come motivo di impugnazione dell'espulsione.
Ne consegue che la pendenza del giudizio promosso dinanzi al giudice amministrativo per l'impugnazione dei predetti provvedimenti negativi non giustifica la sospensione e la cessazione del processo instaurato dinanzi al giudice ordinario con l'impugnazione del decreto di espulsione del prefetto attesa la carenza di pregiudizialità giuridica necessaria tra il processo amministrativo e quello civile (Contra Cass. civ., 20 giugno 2000, n. 8381).
Traduzione del decreto di espulsione ed art. 13, comma 7, del D.Lgs. 286/1998
In punto di fatto è il caso di osservare che l'Ufficio territoriale del Governo di Savona, in persona del Prefetto pro-tempore, ha proposto ricorso per cassazione avverso l'ordinanza in data 26 febbraio 2007 con cui il Giudice di pace di Savona, in accoglimento dell'opposizione proposta dalla cittadina brasiliana, ha annullato il provvedimento di espulsione emesso, nei suoi confronti, dal Prefetto di Savona il 10 maggio 2006.
Secondo i giudici di legittimità, il provvedimento del questore notificato non risultava redatto in una lingua conosciuta dalla straniera, così come richiede il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 7, ma, stante l'impossibilità di reperire un traduttore di lingua portoghese, lingua ufficiale del Brasile, era stato redatto in lingua italiana e spagnola, sulla presunzione che l'espellenda conoscesse tali idiomi. Inoltre, la giustificazione dell’impossibilità della immediata disponibilità di un traduttore ed interprete ufficiale nella lingua madre della cittadina straniera, e della sufficienza di essa a rendere valido il decreto, è proposta per la prima volta in cassazione, non risultando che di essa si sia discusso nel giudizio di merito.
Di qui l'illegittimità del provvedimento per difetto di motivazione in ordine alla scelta di una delle lingue di redazione dell'atto (l'art. 13, comma 7 prescrive infatti che l'ordine del questore deve essere tradotto allo straniero "in una lingua da lui conosciuta, ovvero, ove non sia possibile, in lingua francese inglese o spagnola").
Ciò premesso, si osserva che il comma 7, dell'art. 13 del D.Lgs. 286/1998 pone una norma di civiltà giuridica, affermando che il decreto di espulsione - come pure il provvedimento con cui lo straniero viene introdotto temporaneamente in un centro di accoglienza (art. 14, comma 1), nonchè ogni altro atto concernente l'ingresso in Italia, il soggiorno o l'espulsione - devono essere comunicati all'interessato, unitamente all'indicazione delle modalità di impugnazione e a una traduzione in una lingua da lui conosciuta, ovvero, ove non sia possibile, in lingua francese, inglese o spagnola.
Dalla disposizione in esame si evince che l'obbligo di traduzione del provvedimento del questore in una lingua conosciuta dallo straniero non è assoluto, ma è derogabile tutte le volte in cui l'autorità amministrativa attesti e specifichi le ragioni tecnico-organizzative per le quali tale traduzione non sia possibile e si imponga per l'effetto la traduzione in una delle tre lingue predeterminate dalla norma (francese, inglese, spagnolo).
Va da sè che tale attestazione deve riguardare la lingua conosciuta dallo straniero espellendo, una lingua evidentemente diversa da una di quelle cd. internazionali (francese, inglese, spagnolo). Ciò significa che l'autorità amministrativa, nel disporre la traduzione del provvedimento in una delle tre lingue specificamente indicate come obbligatorie, deve accertare preventivamente quale di queste tre lingue sia conosciuta dallo straniero, qualora non sia possibile eseguire la traduzione nella sua lingua madre.
Una traduzione in una delle tre lingue comuni e più diffuse come quelle indicate (francese, inglese, spagnolo) che non sia accompagnata da alcun accertamento preventivo sul punto è destinato ad inficiare la regolarità della traduzione e quindi del provvedimento amministrativo, e questo perchè la ratio della norma è proprio quella di assicurare allo straniero la comprensione della misura e l'apprestamento della sua difesa (Cass. civ., Sez. 1, 7 luglio 2000, n. 9078).
Esplicita sul punto si è mostrata anche la Corte costituzionale che, pur dichiarando manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, comma 7 nella parte in cui non prevede l'obbligatorietà della traduzione del decreto di espulsione notificato allo straniero nella sua lingua madre, ha tuttavia evidenziato che spetta al giudice di merito verificare se il provvedimento di espulsione sia stato tradotto in una lingua conosciuta o conoscibile dallo straniero, al fine di accertare se l'atto ha raggiunto o meno lo scopo cui è preordinato (Corte Cost., 8-21 luglio 2004, n. 257).
Ne consegue che la traduzione si configura come condizione di validità del provvedimento e che l'emissione del provvedimento in lingua italiana accompagnato dalla traduzione in una delle tre lingue dianzi indicate (francese, inglese, spagnolo) presuppone, a pena di invalidità del decreto, l'acquisizione della prova della conoscenza da parte dello straniero di una di queste lingue.
(Altalex, 6 novembre 2009. Nota di Rocchina Staiano)

Pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni

Pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni
Circolare Ministero Economia e finanze 08.10.2009 n° 29 , G.U. 22.10.2009


http://www.altalex.com/index.php?idnot=47955

MINISTERO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE, CIRCOLARE 8 ottobre 2009, n. 29
Decreto 18 gennaio 2008, n. 40, concernente «Modalita' di attuazione dell'articolo 48-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, recante disposizioni in materia di pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni» - Nuovi chiarimenti. (09A12404)
(GU n. 246 del 22-10-2009)
Agli uffici centrali del bilancio presso le amministrazioni centrali dello Stato All'Ufficio centrale di ragioneria presso l'Amministrazione dei monopoli di Stato Alle ragionerie territoriali dello Stato Ai revisori dei conti in rappresentanza del Ministero dell'economia e delle finanze presso enti ed organismi pubblici
e p.c.:
Alla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Segretariato generale Alle amministrazioni centrali dello Stato - Gabinetto All'Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato Al Consiglio di Stato Alla Corte dei conti All'Avvocatura generale dello Stato
Premessa e quadro normativo.Nel quadro generale della normativa inerente ai pagamenti disposti da parte delle pubbliche amministrazioni, sicuramente ha assunto una notevole rilevanza, soprattutto per l'ampia sfera di applicazione, la disciplina recata dall'art. 48-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 602/1973, disposizione introdotta dall'art. 2, comma 9, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2006, n. 286, successivamente modificata dall'art. 19 del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 novembre 2007, n. 222, nonche' dall'art. 2, comma 17, della legge 15 luglio 2009, n. 94.Il citato art. 48-bis, nella sua attuale formulazione, prevede che le amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e le societa' a prevalente partecipazione pubblica, prima di effettuare, a qualunque titolo, il pagamento di un importo superiore a diecimila euro, verifichino se il beneficiario e' inadempiente all'obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o piu' cartelle di pagamento per un ammontare complessivo pari almeno a detto importo e, in caso affermativo, non procedano al pagamento, segnalando la circostanza all'agente della riscossione competente per territorio, al fine dell'esercizio dell'attivita' di riscossione delle somme iscritte a ruolo.Il comma 2-bis del medesimo art. 48-bis, inoltre, stabilisce che la predetta soglia di diecimila euro possa essere aumentata, in misura comunque non superiore al doppio, ovvero diminuita, con decreto di natura non regolamentare del Ministro dell'economia e delle finanze.La normativa in discorso, a seguito dell'emanazione del regolamento di attuazione adottato con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze n. 40/2008, e' divenuta operativa e concretamente applicabile a far data dal 29 marzo 2008, limitatamente pero' alle sole amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165/2001, ed alle societa' a totale partecipazione pubblica, in quanto il medesimo decreto n. 40/2008 rinvia ad un successivo regolamento la disciplina per la relativa attuazione nei confronti delle societa' a prevalente partecipazione pubblica.La disposizione di cui all'art. 48-bis, viceversa, dal 30 luglio 2009 - data di entrata in vigore delle modifiche introdotte dal richiamato art. 2, comma 17, della legge n. 94/2009 - non e' applicabile alle aziende ne' alle societa' per le quali sia stato disposto il sequestro o la confisca ai sensi dell'art. 12-sexies, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, concernente ipotesi particolari di confisca, ovvero ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, recante disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso.E' d'obbligo ricordare, poi, che non e' stata mutata la soglia di diecimila euro individuata dall'art. 48-bis idonea a far scattare l'obbligo della verifica.Appare anche opportuno segnalare che in data 9 luglio 2009 e' stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 157 il decreto del Ministro dell'economia e delle finanze 19 maggio 2009 recante «Disciplina delle modalita' di attuazione dell'art. 9, comma 3-bis, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, concernente la certificazione dei crediti, da parte delle regioni e degli enti locali debitori, relativi alla somministrazione di forniture o di servizi». Infatti, seppure limitatamente all'anno 2009, tale decreto prevede che, al fine di permettere agli enti pubblici territoriali di rilasciare la predetta certificazione finalizzata alla cessione del credito, venga attivata una verifica afferente all'art. 48-bis secondo le modalita' del decreto ministeriale n. 40/2008, senza dar luogo, nel caso di riscontrato inadempimento, all'attivazione automatica delle procedure di riscossione coattiva da parte dell'agente della riscossione.Sotto il versante ermeneutico, invece, occorre nominare la circolare 29 luglio 2008, n. 22, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale - serie generale - n. 186 del 9 agosto 2008, con la quale e' stata fornita una lettura interpretativa in merito ad alcune delle problematiche apparse di maggiore importanza e di piu' generale interesse.A circa un anno dalla diffusione della menzionata circolare, della quale si confermano interamente l'impianto argomentativo e le considerazioni esposte, si e' ritenuto opportuno e doveroso, stante pure le sollecitazioni e le richieste pervenute, offrire un contributo integrativo alla tematica in questione, fornendo cosi' nuovi chiarimenti.Pagamento concomitante di piu' fatture.E' stata rappresentata, da varie amministrazioni, la problematica concernente l'esatta individuazione dell'importo da sottoporre alla verifica prevista dall'art. 48-bis nel caso di pagamento di una pluralita' di fatture, anche di importo inferiore a diecimila euro, emesse dal medesimo fornitore e relative a diversi contratti, ma di importo superiore a detta soglia se complessivamente considerate.Tale situazione, in particolare, assume rilevanza nel caso in cui la stessa amministrazione procede alla liquidazione delle somme spettanti al fornitore attraverso l'emissione di un unico mandato di pagamento, per evidenti ragioni di economicita' procedimentale e speditezza dell'azione amministrativa.Al riguardo, preliminarmente, appare utile ricordare che nella richiamata circolare n. 22/2008, in ordine al tema del divieto di artificiosi frazionamenti dei pagamenti, e' stato esplicitato che il pagamento - identificato nella sua accezione privatistica e non come fase della spesa nel suo significato giuscontabile - e' l'adempimento di un'obbligazione pecuniaria derivante, per lo piu', da un rapporto contrattuale.Pertanto, nel caso di specie, e' verosimile ritenere che, di norma, le diverse fatture identifichino distinti pagamenti intesi nell'accezione poc'anzi indicata.La circostanza, poi, che l'amministrazione nel procedere alla liquidazione di quanto dovuto ad un medesimo beneficiario provveda al pagamento - per esigenze di semplificazione o, talvolta, per momentanea carenza di liquidita' e conseguente necessitata liquidazione congiunta di piu' somme dovute - emettendo un unico mandato relativo a varie fatture, si ritiene non implichi la necessita' di dover effettuare la prevista verifica nel caso in cui sia stata superata la soglia dei diecimila euro solo con riguardo all'importo complessivamente indicato nel mandato di pagamento emesso.A ben vedere, infatti, una diversa interpretazione che porti a riferire la soglia di operativita' della verifica prevista dal citato art. 48-bis alla somma degli importi indicati nello stesso mandato di pagamento, appare suscettibile di generare disparita' applicative da parte delle diverse amministrazioni, specie tra quelle che procedono alla liquidazione dei debiti con una certa correntezza e quelle che, per vari motivi, si trovano a liquidare, anche a distanza di tempo, una pluralita' di fatture ricevute da uno stesso fornitore.La medesima soluzione, si ritiene debba essere estesa anche al caso in cui le diverse fatture, pur riferendosi ad un identico contratto, vengono emesse, nell'ipotesi di appalto di lavori, in coincidenza con i diversi stati di avanzamento lavori (SAL) e con il saldo finale, ovvero, nell'ipotesi di fornitura di beni o servizi (in virtu' di piu' contratti di somministrazione o comunque ad esecuzione periodica), in base alla concomitante periodicita' prevista dai contratti stessi o dagli usi.Chiarimenti integrativi in materia di raggruppamenti temporanei di imprese.Nella circolare n. 22/2008 e' stato chiarito che, nell'ipotesi di associazione temporanea di imprese e, ora, di raggruppamento temporaneo di imprese (art. 37 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163), la verifica prevista dall'art. 48-bis va effettuata sia in capo all'impresa mandataria che nei riguardi dell'impresa mandante, poiche', di regola, le imprese raggruppate, nell'esecuzione del contratto, non perdono l'autonomia gestionale nei complessi rapporti giuridici posti in essere all'interno del raggruppamento stesso e nei confronti dei terzi, e pertanto, relativamente ad ognuna di esse, permane, per i lavori di competenza, l'obbligo di fatturazione delle operazioni direttamente alla stazione appaltante.In particolare, la verifica prevista dall'art. 48-bis va effettuata sugli importi di pertinenza di ogni singola impresa sulla base dei lavori eseguiti da ciascuna, pure laddove cio' sia avvenuto non in conformita' alla quota di partecipazione.Al riguardo va precisato che tale soluzione e' valida sia nel caso in cui il mandato di pagamento e' intestato alla mandataria che riscuote in nome e per conto della mandante, sia, ovviamente, nel caso in cui e' la stessa impresa mandante a curare direttamente la riscossione del proprio credito.Infatti, anche quando il pagamento e' eseguito a favore dell'impresa mandataria, il mandato conferito da parte della mandante, al fine di provvedere alla sola riscossione del credito vantato nei confronti della pubblica amministrazione, non produce il trasferimento della titolarita' del diritto di credito che permane in capo all'impresa mandante, nei confronti della quale dovra', quindi, essere espletata la verifica ex art. 48-bis per l'intero importo dalla stessa fatturato.Leasing.Con riferimento ai pagamenti connessi all'ammortamento dei mutui concessi da societa' bancarie e dalla Cassa depositi e prestiti S.p.a. nonche' ad altre operazioni di indebitamento della pubblica amministrazione, nella piu' volte richiamata circolare n. 22/2008 e' stato espresso l'avviso che non debba essere attivata la procedura di verifica prevista dall'art. 48-bis, attesa l'esistenza, tra l'altro, di specifiche disposizioni di legge per la tutela di tali crediti.Considerazioni non dissimili, stante le forti assonanze e finalita', possono essere svolte nei confronti di altre operazioni di indebitamento, tra le quali il leasing o contratto di locazione finanziaria.In estrema sintesi ed in termini assolutamente generali, senza scendere nel dettaglio e nell'analisi delle varie tipologie di leasing, si rileva che attraverso tale contratto la pubblica amministrazione puo' ottenere - a fronte del pagamento di un canone periodico e con possibilita', normalmente, di riscatto alla scadenza - il godimento di un bene la cui utilita' concorre, in via diretta o strumentale, a soddisfare un interesse pubblico.Al riguardo, e' indubbio che anche il leasing, permettendo di ripartire su un determinato arco temporale, spesso di lungo periodo, l'onere finanziario derivante dall'acquisizione della disponibilita' di un bene, costituisce per la pubblica amministrazione una forma di indebitamento, sicuramente assimilabile all'accensione di un mutuo.Per altro verso, similmente ai mutui, i crediti derivanti da canoni relativi a contratti di locazione finanziaria ricevono, da diverse disposizioni di legge, una particolare tutela (ad esempio l'art. 67, terzo comma, della legge 16 marzo 1942, n. 267, esclude l'azione revocatoria per i pagamenti effettuati).Cio' posto, si ritiene che anche i pagamenti dei canoni connessi ad operazioni di leasing, al pari delle rate di ammortamento del mutuo, debbano ritenersi esclusi dall'applicazione della verifica prevista dall'art. 48-bis.Rapporto tra l'art. 48-bis e l'art. 72-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 602/1973.Alcune amministrazioni hanno sollevato talune perplessita' in ordine al rapporto esistente tra l'art. 48-bis e l'art. 72-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 602/1973.Nello specifico, e' stato rappresentato che le disposizioni contenute nell'art. 3 del decreto ministeriale n. 40/2008, volte a disciplinare gli effetti della verifica in caso di inadempimento da parte del beneficiario, sembrerebbero riguardare solo i crediti per i quali l'agente della riscossione competente per territorio possa procedere alla notifica dell'ordine di versamento di cui all'art. 72-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 602/1973.Infatti, da una prima lettura della citata disposizione regolamentare, potrebbe trarsi il convincimento di una applicazione dell'art. 48-bis esclusivamente propedeutica e finalizzata all'attivazione dell'art. 72-bis.Tale conclusione troverebbe notevoli riflessi pratici con riguardo, in particolare, ai crediti pensionistici, per i quali, stante l'inapplicabilita' agli stessi della procedura di pignoramento delineata dal citato art. 72-bis, si e' giunti a prefigurarne sin anche un'esclusione dalla verifica.Per fornire una soddisfacente soluzione alla cennata problematica, preliminarmente, appare utile richiamare il parere n. 2834/2007 - espresso nell'adunanza del 22 ottobre 2007, in merito allo schema di regolamento successivamente adottato con il menzionato decreto ministeriale n. 40/2008 - con il quale il Consiglio di Stato ha ritenuto, in via generale, che le somme su cui puo' esercitarsi la sospensione sono quelle sulle quali, ai termini e nei limiti previsti dalla legge, e' esperibile l'azione di recupero coattivo ad opera dell'agente della riscossione.Segnatamente sul pignoramento dei crediti pensionistici e' pure d'obbligo sottolineare che la Corte costituzionale, enucleando principi e criteri aventi portata generale, si e' pronunciata per «l'illegittimita' costituzionale degli articoli 1 e 2, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1950, n. 180 (Testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni), nella parte in cui escludono la pignorabilita' per ogni credito dell'intero ammontare delle pensioni, indennita' che ne tengono luogo ed altri assegni di quiescenza erogati ai dipendenti dai soggetti individuati dall'art. 1, anziche' prevedere l'impignorabilita', con le eccezioni previste dalla legge per crediti qualificati, della sola parte delle pensioni, indennita' o altri assegni di quiescenza necessaria per assicurare al pensionato mezzi adeguati alle esigenze di vita e la pignorabilita' nei limiti del quinto della residua parte» (sentenza n. 506 del 4 dicembre 2002 e, gia' sulla medesima linea, sentenza n. 468 del 22 novembre 2002).In buona sostanza, da quanto sopra esposto, quindi, per il Consiglio di Stato sono, in genere, soggetti alla verifica di cui all'art. 48-bis i pagamenti di somme sulle quali l'agente della riscossione e' legittimato ad intraprendere l'azione di recupero coattivo, mentre, per la Corte costituzionale, sarebbe incostituzionale una previsione di legge volta ad escludere completamente la pignorabilita' dei trattamenti pensionistici.Cio' considerato, dal quadro giuridico delineato si deduce chiaramente che non sussistono solide ragioni per escludere i crediti pensionistici dall'ambito di applicazione dell'art. 48-bis.Pertanto, nonostante il citato decreto ministeriale n. 40/2008, all'art. 3, comma 3, relativamente agli effetti della verifica, contenga soltanto il riferimento all'art. 72-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 602/1973 - che prevede, salvo il caso della riscossione coattiva dei crediti pensionistici, la possibilita' per l'agente della riscossione di procedere al pignoramento presso terzi mediante la notifica di un atto semplificato rispetto a quello ordinario previsto dall'art. 543 del codice di procedura civile - si e' dell'avviso che non possa escludersi, per tale tipologia di crediti, l'attivazione della verifica ex art. 48-bis, laddove l'importo da pagare superi i diecimila euro, in quanto l'agente della riscossione potra', nell'ipotesi di rilevata inadempienza, sempre attivare l'ordinaria procedura di riscossione coattiva.D'altra parte, neppure puo' essere tralasciata la considerazione che la disciplina recata dal decreto del Presidente della Repubblica n. 602/1973 non contiene alcun riferimento che possa indurre a far ritenere che l'art. 48-bis si atteggi a presupposto necessario per l'applicazione dell'art. 72-bis.In proposito, si consideri anche che, mentre l'art. 72-bis, seppure con una portata piu' limitata, e' stato introdotto dall'art. 3, comma 40, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, l'art. 48-bis, come gia' detto, e' stato introdotto in epoca successiva ad opera del decreto-legge n. 262/2006.Per cui, in ultima analisi, non puo' che riconoscersi una sostanziale autonomia precettiva e applicativa dei due articoli in argomento. Non esistono motivi ostativi, ad esempio, perche' l'agente della riscossione possa avvalersi dell'art. 72-bis a prescindere dall'avvenuta attivazione della verifica di cui all'art. 48-bis.Chiarimenti integrativi in materia di cessione del credito.Con l'obiettivo di dirimere talune difficolta' interpretative sorte in occasione dell'emanazione del decreto ministeriale n. 40/2008, nella circolare n. 22/2008 e' stato precisato che, in caso di cessione del credito - effettuata ai sensi degli articoli 1260 e seguenti del codice civile e della legge 21 febbraio 1991, n. 52, per la cessione dei crediti d'impresa - la verifica prevista dall'art. 48-bis deve essere eseguita nei confronti del creditore originario (cedente) nel presupposto che l'amministrazione rimanga estranea al rapporto tra cedente e cessionario finalizzato al trasferimento della titolarita' del credito.Cio' nonostante, ferma restando la validita' complessiva delle enunciazioni esposte nella menzionata circolare, considerazioni relative alla situazione economica generale del Paese nonche' alle crescenti difficolta' di piccole e medie imprese ad accedere a finanziamenti attraverso la cessione dei propri crediti impongono, pero', un maggiore approfondimento della tematica in discorso, specialmente con riguardo al momento in cui effettuare la prescritta verifica presso Equitalia Servizi S.p.a.A tal fine, appare quindi opportuno, in linea con lo spirito della piu' recente normativa in materia di facilitazioni all'accesso al credito delle imprese (basti considerare, in proposito, le disposizioni recate dal decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2) ed in sintonia con il precipuo interesse alla riscossione dei crediti erariali, esaminare gli effetti che produce nei confronti della pubblica amministrazione la notificazione o l'accettazione della cessione del credito (art. 1264, comma primo, del codice civile).Nell'ambito dello scenario della disciplina codicistica, qualora la cessione del credito sia avvenuta senza il consenso del soggetto pubblico debitore (ceduto) - indipendentemente da una eventuale conoscenza o semplice notificazione della cessione - la verifica prevista dall'art. 48-bis, come gia' indicato nella cennata circolare n. 22/2008, deve essere effettuata esclusivamente nei confronti del creditore originario (cedente).In assenza del consenso del debitore - non necessario ai sensi dell'art. 1260 del codice civile, purche' il credito non abbia carattere strettamente personale - la pubblica amministrazione puo', infatti, opporre al cessionario tutte le eccezioni che poteva far valere nei confronti del creditore originario.Invero, con la cessione del credito - subentrando il cessionario nel diritto di credito del cedente e sostituendosi ad esso nella medesima posizione - non puo' determinarsi una modifica peggiorativa della posizione originaria del debitore ceduto a causa della cessione del credito in cui, tra l'altro, non ha avuto direttamente parte.Cio' nondimeno, si ritiene che il meccanismo della verifica delineato dall'art. 48-bis possa essere soddisfatto anche altrimenti, ricorrendo specifiche circostanze e in presenza di determinate condizioni, rispetto a quanto gia' esposto nella circolare n. 22/2008.Infatti, allorche' la pubblica amministrazione (ceduto) sia stata adeguatamente resa partecipe dell'avvenuta cessione del credito a mezzo notifica della stessa, si e' dell'avviso che, sussistendo determinati presupposti, la ratio della norma recata dall'art. 48-bis possa ritenersi egualmente soddisfatta attraverso l'effettuazione di una prima verifica volta ad accertare la posizione del beneficiario (cedente) all'atto della predetta notifica, seguita da una successiva verifica nei confronti del cessionario da effettuare al momento del pagamento.Al riguardo, non si puo' prescindere dal considerare che il credito ceduto puo' giungere a maturazione anche dopo molti anni dalla cessione, esponendo il cessionario al rischio di possibili comportamenti fiscali e amministrativi, in senso lato, poco virtuosi del cedente - eventualmente posti in essere in tempi susseguenti, anche lontani - e che tale incertezza possa, in qualche modo, ripercuotersi sul costo di cessione, incidendo, infine, anche sul corrispettivo contrattuale o, comunque, sulle somme dovute, con la potenziale insorgenza di maggiori oneri per la pubblica amministrazione.Per altro verso, evidenti ragioni anti-elusive, escludono che la verifica de qua possa essere effettuata solamente nei confronti del cessionario.Pertanto, si ritiene che - anche al fine di liberare il cessionario da eventuali futuri rischi connessi a possibili azioni di recupero coattivo poste in essere dall'agente della riscossione per effetto di una sopraggiunta situazione di inadempienza del cedente stesso, rilevabile ex art. 48-bis - dovra' essere richiesta all'amministrazione debitrice, in occasione della notifica della cessione, l'espressa accettazione della cessione del credito con esplicito riferimento all'insussistenza di situazioni di inadempienza.La suddetta richiesta, allo scopo, dovra' essere opportunamente accompagnata dall'esplicito consenso al trattamento dei dati personali da parte del soggetto cedente - come previsto dall'art. 23 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, recante il codice in materia di protezione dei dati personali - affinche' l'amministrazione debitrice possa procedere ad una verifica in capo al soggetto cedente, per assolvere alle finalita' indicate dall'art. 48-bis.Tale consenso - che potra' essere formulato secondo il fac-simile unito alla presente circolare (Allegato A) - si ritiene vada fornito, in quanto, a ben vedere, la verifica e' effettuata in un momento temporalmente anche molto distante dal correlato pagamento, per cui, a rigore, la situazione non e' esattamente inquadrabile nella fattispecie delineata dall'art. 48-bis.Peraltro, la suddetta verifica, in caso di riscontrata inadempienza, non produrra' l'attivazione da parte dell'agente della riscossione delle procedure previste per il recupero coattivo delle somme iscritte a ruolo, ma permettera' all'amministrazione debitrice di non rendere il proprio esplicito consenso alla cessione del credito notificata.Diversamente, qualora il cedente sia risultato «non inadempiente'», l'amministrazione debitrice comunichera' al cedente ed al cessionario l'espressa accettazione della cessione del credito, con l'effetto di liberare il cessionario dalla possibilita' di vedersi sollevare, in occasione del pagamento, eccezioni connesse alla situazione del cedente.Si reputa, poi, opportuno soggiungere che, al fine di produrre gli effetti sopra indicati, il meccanismo teste' delineato dovra' essere necessariamente attivato affinche' l'amministrazione presti il consenso alla cessione del credito derivante da contratti ancora in corso (art. 9 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, Allegato E) ovvero da contratti di somministrazione e fornitura (art. 70, terzo comma, del regio decreto 18 novembre 1923, n. 2440).Una considerazione a parte merita, inoltre, il caso di cessioni di crediti derivanti da contratti di servizi, forniture e lavori di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (codice dei contratti pubblici).Orbene, l'art. 117, commi 2 e 3, del codice dei contratti pubblici prevede che le cessioni di crediti da corrispettivo di appalto, concessione e concorso di progettazione devono essere notificate alle amministrazioni debitrici e sono efficaci ed opponibili a queste ultime qualora non le rifiutino con comunicazione da notificarsi al cedente e al cessionario entro quarantacinque giorni dalla notifica della cessione.E' indubbio, quindi, che in tal caso l'amministrazione all'atto della notificazione della cessione del credito dovra' necessariamente effettuare la verifica ai sensi dell'art. 48-bis in capo al soggetto cedente - che, a tal fine, fornira' esplicito consenso ai sensi dell'art. 23 del decreto legislativo n. 196/2003 - allo scopo, nel caso di riscontrata situazione di «inadempienza», di rifiutare la cessione del credito.Va da se' che l'omesso consenso del cedente alla verifica in discorso - e la conseguente sostanziale impossibilita' per l'amministrazione di effettuare immediatamente la stessa - ovvero la rilevazione di una situazione di «inadempienza», implicano l'effettuazione della verifica nei confronti del cedente all'atto del successivo pagamento.Appare, poi, chiaro che, nel caso in cui l'amministrazione debitrice abbia manifestato il proprio consenso alla cessione del credito - in quanto il cedente e' risultato «non inadempiente» - il controllo ex art. 48-bis andra' effettuato nei confronti del solo cessionario.In definitiva, va sottolineato, comunque, come soltanto l'avvenuta rilevazione della assenza di inadempimenti a carico del cedente, ancorche' effettuata al momento della notifica della cessione, legittima l'esclusione dello stesso cedente dalla sottoposizione ad una nuova verifica al momento del pagamento.Errata attivazione dell'art. 48-bis.Talune amministrazioni hanno segnalato che, prima di effettuare un pagamento, potrebbe avvenire che sia stata erroneamente attivata la verifica prevista dall'art. 48-bis anche per casi in cui, alla luce degli indirizzi interpretativi forniti con la circolare n. 22/2008 oppure per altre ragioni, l'obbligo di verifica doveva ritenersi escluso (ad esempio: il beneficiario ha la natura di pubblica amministrazione; il pagamento e' fondato su ragioni di preminente interesse pubblico; eccetera).Nello specifico, e' stato piu' volte posto il problema di quale condotta l'amministrazione debba adottare, laddove il beneficiario del pagamento sia risultato inadempiente a seguito della verifica inopinatamente effettuata.Nell'ipotesi delineata, si ritiene che l'amministrazione, al fine di non recare un indebito nocumento al beneficiario, possa comunque dare seguito al pagamento senza attendere il termine di trenta giorni di cui all'art. 3, comma 4, del decreto ministeriale n. 40/2008.Naturalmente, anche allo scopo di non pregiudicare l'attivita' di riscossione, l'amministrazione comunichera' formalmente a Equitalia servizi S.p.a. - e, nel caso sia gia' stato notificato l'atto di pignoramento ai sensi dell'art. 72-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 602/1973, anche al competente agente della riscossione - di aver proceduto o di essere in procinto di procedere al pagamento a favore del beneficiario, affinche' possa essere evitata l'attivazione della prevista procedura esecutiva.La suddetta comunicazione dovra' risultare adeguatamente motivata, soprattutto allo scopo di consentire gli opportuni riscontri in sede di controllo.Dal canto suo, l'agente della riscossione, preso atto della comunicazione ricevuta, disporra' l'estinzione della procedura gia' avviata, provvedendo nel contempo ad avviare le opportune iniziative parimenti dirette alla riscossione dei crediti indicati nelle cartelle di pagamento inesitate.Trattamento di fine rapporto.Sono state pure sollevate perplessita' in ordine al caso in cui il trattamento di fine rapporto, a causa del decesso del lavoratore, venga pagato ad un soggetto diverso.Al riguardo, appare utile premettere che, in caso di morte del prestatore di lavoro, le indennita' di mancato preavviso e di fine rapporto (articoli 2118 e 2120 del codice civile), che sarebbero spettate al lavoratore se il rapporto di lavoro si fosse sciolto prima del decesso, spettano nella stessa misura ai superstiti indicati al primo comma dell'art. 2122 del codice civile.In tale ipotesi, gli aventi diritto acquisiscono, di conseguenza, il diritto a percepire le suddette indennita' iure proprio e non per successione.Le indennita' di fine rapporto e di mancato preavviso, infatti, a differenza di quanto avviene per altre spettanze comunque connesse al rapporto di lavoro (come, ad esempio, gli emolumenti arretrati, lo straordinario, le ferie non godute, eccetera), non vengono ripartite in base alla disciplina in materia di successione mortis causa.Cio' posto, si ritiene che la verifica prevista dall'art. 48-bis debba essere effettuata solamente in capo al soggetto (o ai soggetti)cui, in base all'art. 2122 del codice civile, spettano le indennita' in discorso (o quota parte di esse), mentre, in mancanza delle persone indicate nel primo comma del citato art. 2122 del codice civile, si applicano le regole ordinarie, giusta pronunciamento della Corte costituzionale con sentenza n. 8 del 19 gennaio 1972.Analoghe considerazioni valgono, ovviamente, anche per il trattamento di fine servizio.Validita' della liberatoria.Appare utile, infine, fornire alcune precisazioni in merito alla validita' temporale della verifica effettuata secondo le modalita' indicate dal decreto ministeriale n. 40/2008.Puo' infatti accadere che l'amministrazione, per svariati motivi, eroghi le somme relative ad un determinato pagamento anche a distanza di tempo dall'effettuazione della predetta verifica.Nel precisare che, ai fini in discorso, assume comunque primaria importanza il momento di emissione del mandato di pagamento - in quanto, non infrequentemente, l'effettiva erogazione delle somme dovute, sotto il profilo temporale, puo' essere influenzata da circostanze indipendenti dalla volonta' del debitore - si e' dell'avviso che, salvo casi eccezionali e contingenti da motivare adeguatamente, la verifica di cui all'art. 48-bis vada effettuata a ridosso del mandato di pagamento stesso.Infine, e' opportuno precisare che, nel caso di una pluralita' di pagamenti nei confronti del medesimo beneficiario - salva l'ipotesi di pagamenti contestuali, nel qual caso, per evidenti ragioni di economia procedimentale, potra' ritenersi sufficiente la stessa liberatoria per tutti i pagamenti in questione - un'unica liberatoria non e' idonea a soddisfare le prescrizioni di cui all'art. 48-bis. La predetta verifica, infatti, dovra' essere espletata con riguardo a ciascuno dei pagamenti da effettuare.Roma, 8 ottobre 2009
Il Ragioniere generale dello Stato: Canzio
Il direttore generale delle finanze: Lapecorella
Allegato A
(fonte: - formato pdf)

sabato 31 ottobre 2009

Opposizione a sanzioni amministrative: le novità normative e giurisprudenziali

Opposizione a sanzioni amministrative: le novità normative e giurisprudenziali

Articolo di Renato Amoroso 20.10.2009 http://www.altalex.com/index.php?idnot=47789

Opposizione a sanzioni amministrative di Renato Amoroso
Allorchè i Comuni procedono alla riscossione delle sanzioni conseguenti a violazioni al Codice della Strada, devono avvalersi delle norme di cui al D.P.R. 602/1973 e successive modificazioni, con la formazione del ruolo esattoriale. Infatti il combinato disposto dell’art. 27 della legge 689/81 e dell’art. 206 Codice della Strada impone all’amministrazione di riscuotere la sanzione “in base alle norme previste per la esazione delle imposte dirette”, di cui al D.P.R. 602/73. In altre parole l’amministrazione deve provvedere alla formazione dei ruoli esattoriali e consegnare detti ruoli all’esattore per la riscossione.
Va tuttavia precisato che tale procedura non è l’unica ammissibile in materia.
A tal proposito va menzionato un contrasto giurisprudenziale, poi risolto da una specifica norma di legge.
Cass. civile , sez. I, 06 novembre 2006, n. 23631, infatti così si esprimeva: ”In tema di sanzioni amministrative per violazioni del codice della strada, la disciplina dettata dagli art. 203 e 204 c. strad., che conferiscono efficacia di titolo esecutivo, rispettivamente, al verbale di accertamento non opposto ovvero alla successiva ordinanza ingiunzione irrogativa della sanzione, e dal successivo art. 206, che, ai fini della riscossione della stessa, dichiara applicabili, mediante il rinvio all'art. 27, l. n. 689 del 1981, le norme previste per l'esazione delle imposte dirette, costituisce, tanto con riferimento alla fase della formazione del titolo esecutivo, quanto in relazione a quella della esecuzione coattiva, un sistema tassativo e derogatorio rispetto a quello previsto dalla normativa generale; l'amministrazione, pertanto, è priva della facoltà di ricorrere, in alternativa al predetto sistema, ai normali mezzi previsti dalla legge per la formazione del titolo esecutivo o per procedere ad esecuzione forzata”.
Nell’anno precedente le sezioni unite (Cass. civile , sez. un., 21 gennaio 2005, n. 1240) avevano chiarito che: “L'art. 52, comma 6, d.lg. 15 dicembre 1997 n. 446 ha lasciato province e comuni liberi di procedere alla riscossione dei tributi e delle altre entrate di loro spettanza sia a mezzo di concessionari sia in proprio, in tale ultima evenienza richiamando la procedura indicata dal r.d. 14 aprile 1910 n. 639; onde l'ordinanza-ingiunzione emessa dal Comune per il pagamento di una somma di danaro a titolo di tributo evaso in relazione all'abusiva occupazione di un tratto di suolo pubblico si atteggia univocamente come atto impositivo, e la giurisdizione sulla relativa controversia spetta alle commissioni tributarie, non già al giudice dell'opposizione all'ordinanza-ingiunzione ai sensi della l. 24 novembre 1981, n. 689, non assumendo rilievo, in contrario, nè l'errata indicazione, nel provvedimento impugnato, dell'organo giurisdizionale (giudice ordinario) davanti al quale proporre impugnativa (potendo tale errore tutt'al più incidere sulla decorrenza del termine per impugnare), nè la mancata inclusione, tra gli atti impugnabili ex art. 19 d.lg. 31 dicembre 1992 n. 546, della ingiunzione (menzionata, invece, nell'art. 16, comma 1, d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 636 sul previgente contenzioso tributario), essendo ciò dovuto alla ormai generalizzata riscossione dei tributi mediante iscrizione a ruolo (1).
Successivamente è intervenuto il DECRETO-LEGGE 31 dicembre 2007, n. 248 convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 2008 n. 31 che, all’art. 36 contenente “Disposizioni in materia di riscossione”, al n.2 dispone:
"2. La riscossione coattiva dei tributi e di tutte le altre entrate degli enti locali continua a potere essere effettuata con:
a) la procedura dell'ingiunzione di cui al regio decreto 14 aprile 1910, n. 639, seguendo anche le disposizioni contenute nel titolo II del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, in quanto compatibili, nel caso in cui la riscossione coattiva e' svolta in proprio dall'ente locale o e' affidata ai soggetti di cui all'articolo 52, comma 5, lettera b), del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446;
b) la procedura del ruolo di cui al decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, se la riscossione coattiva e' affidata agli agenti della riscossione di cui all'articolo 3 del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248."
La competenza a giudicare delle rispettive opposizioni appartiene sempre al Giudice ordinario.
Poiché il ricorso alla procedura di cui al R.D. 14.04.1910, n. 639 è piuttosto raro, tratteremo della sola ipotesi di riscossione mediante ruolo esattoriale comune.
Da quanto sopra esposto consegue che, una volta formato il titolo esecutivo con la corretta e tempestiva notifica del verbale di contestazione, l’inutile decorso del termine utile al pagamento o la definizione del procedimento di opposizione, al trasgressore verrà notificata la cartella esattoriale, quale atto prodromico alla riscossione coattiva.
Appare opportuno, prima di affrontare il tema della opposizione alla cartella, ripercorrere sinteticamente la strada normativa che conduce alla formazione del titolo.
L’accertamento
Di regola la contestazione dell’illecito deve essere immediata, con l’intervento del pubblico ufficiale e l’identificazione del conducente. Peraltro lo stesso Codice della Strada prevede talune situazioni tipiche nelle quali la detta contestazione immediata non appare concretamente possibile o, addirittura, è inopportuna a causa delle condizioni di fatto in cui l’operante si troverebbe ad agire (art. 384 regolamento CdS) (2).
In sintesi la Cassazione ha precisato che è legittima la contestazione differita in tutte quelle condizioni in cui la certezza dell’illecito si concretizza in un momento successivo al fatto, o in conseguenza di accertamenti complessi e quindi non possibili nell’immediatezza.
“In tema di violazioni al codice della strada, la individuazione, contenuta nell'art. 384 del relativo regolamento di esecuzione, delle ipotesi in cui è consentita la mancata contestazione immediata della infrazione - che costituisce requisito di legittimità dei successivi atti del procedimento sanzionatorio - non ha carattere tassativo ma esemplificativo, sicché ben possono ricorrere casi ulteriori in cui una tale impossibilità sia ugualmente ravvisabile purchè la circostanza impeditiva addotta risulti dal verbale di accertamento ed abbia una sua intrinseca logica. (Nella specie la S.C. ha ritenuto legittimo il verbale di contestazione nel quale era stato precisato che la contestazione immediata non era risultata possibile perchè l'infrazione era emersa "a seguito di definizione di incidente stradale con feriti"). Cass.civ. Sentenza n. 14040 del 28/05/2008.
Si precisa inoltre nella stessa decisione: “…come segnalato da questa Corte in tema di sanzioni amministrative, nel caso di mancata contestazione immediata della violazione, l'attività di accertamento dell'illecito non coincide con il momento in cui viene acquisito il "fatto" nella sua materialità, ma deve essere intesa come comprensiva del tempo necessario alla valutazione dei dati acquisiti e afferenti agli elementi (oggettivi e soggettivi) dell'infrazione e, quindi, della fase finale di deliberazione, correlata alla complessità delle indagini tese a riscontrare la sussistenza dell'infrazione medesima e ad acquisire piena conoscenza della condotta illecita sì da valutarne la consistenza agli effetti della corretta formulazione della contestazione (sentenza 18/4/2007 n. 9311).
Infine: “…giusta la prevalente giurisprudenza di questa Corte, la indicazione, nel verbale di contestazione notificato, d'una delle ragioni tra quelle indicate dall'art. 384 reg. esec. C.d.S., che rendono ammissibile la contestazione differita dell'infrazione, non è una mera motivazione di stile ma il richiamo d'una specifica disposizione normativa che rende ipso facto legittimo il verbale e la conseguente irrogazione della sanzione, senza che, in proposito, sussista alcun margine d'apprezzamento, in sede giudiziaria, circa la possibilità concreta di contestazione immediata della violazione, dovendo escludersi che il sindacato del giudice dell'opposizione possa riguardare le scelte organizzative dell'amministrazione; pertanto, in riferimento al caso d'infrazione del limite di velocità accertato a mezzo d'apparecchiature elettroniche, qualora nel verbale sia dato atto dell'impossibilità di fermare l'autoveicolo in tempo utile nei modi regolamentari ex art. 384, lett. e), di detto regolamento, il Giudice dell'opposizione non può escludere detta impossibilità con il rilievo dell'astratta possibilità d'una predisposizione del servizio con modalità in grado di permettere in qualche modo la contestazione immediata (Cass. 17.3.05 n. 5861, 8.8.03 n. 11971, 15.11.01 n. 14313); del pari, il richiamo, nel verbale, del decreto prefettizio D.L. n. 121 del 2001, ex art. 4, e succ. mod. è sufficiente a legittimare l'omissione della contestazione immediata e su tale circostanza non è data al giudice dell'opposizione facoltà alcuna di difforme valutazione”. (Cass.civ. sent 376/2008).
E’ inoltre possibile (ed anche assai frequente) che in relazione al medesimo fatto si verifichino sia la contestazione immediata al conducente che la contestazione differita al proprietario del veicolo (se persona diversa dal conducente) in qualità di coobbligato in solido per il pagamento della sanzione pecuniaria.
Legittimazione al ricorso da parte del trasgressore effettivo, cioè del conducente, soggetto diverso dal proprietario
La giurisprudenza della Suprema Corte ha sempre negato la legittimazione attiva a proporre ricorso avverso la contestazione di violazione al codice della strada a persona diversa da quella alla quale è stato notificato il verbale. Nell’adottare tale linea costante di orientamento la Cassazione ha affermato che, essendo la notifica del verbale l’atto preordinato alla formazione del titolo esecutivo, il soggetto al quale non sia stato notificato tale verbale non avrebbe alcun interesse processuale alla proposizione del ricorso, in quanto nei suoi confronti non potrebbe mai prodursi un titolo idoneo alla riscossione coattiva della sanzione pecuniaria (3).
Tale giurisprudenza, tuttavia, giudicava di casi concreti avvenuti in un’epoca anteriore alla introduzione della patente a punti. La decurtazione può colpire persona diversa dal proprietario del veicolo, al quale viene notificato il verbale, nei casi di contestazione non immediata. Inoltre mentre nella pena pecuniaria vi può essere solidarietà fra conducente e proprietario, per la decurtazione dei punti sussiste una responsabilità esclusiva del solo conducente, in quanto identificato.
Il mutamento del regime sanzionatorio ha quindi condotto sia la Corte costituzionale che la Cassazione ad una preziosa precisazione.
Cassazione civ. sent. 18.02.2008, n. 3948 afferma: “L'estinzione di una pecuniaria, prevista dal codice della strada, derivante dal pagamento in misura ridotta da parte del coobbligato solidale, proprietario dell'autoveicolo, non preclude al conducente, in qualità di autore materiale dell'infrazione, di proporre ricorso giurisdizionale al fine di evitare l'applicazione della sanzione personale relativa alla decurtazione di punti della patente di guida, conseguente alla violazione accertata (v. Corte Cost. n.471 del 2005)”.
Nella detta sentenza la Corte Costituzionale così si esprimeva: “E’ evidente, quindi, che - una volta definita la vicenda relativa alla sanzione pecuniaria, in virtù' del pagamento in misura ridotta effettuato da taluno dei soggetti coobbligati solidalmente per la stessa, ex art. 196 del Codice della strada (soggetti, tra l’altro, a carico dei quali non si potrebbe írrogare la sanzione accessoria della decurtazione dei punteggio dalla patente di guida, secondo quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 27 del 2005) – nessuna norma preclude al conducente ­del veicolo, autore materiale dell’infrazione stradale, di adire le vie giudiziali per escludere l'applicazione, a suo carico, della sanzione “personale" suddetta, Essa, oltretutto, non riveste più carattere accessorio, ma assume valore di sanzione principale per il contravventore, tale motivo presentandosi come l’unica suscettibile di contestazione in sede giudiziaria; contestazione, invece, preclusa per la sanzione pecuniaria, proprio per l'avvenuto pagamento della stessa in misura ridotta, da parte di uno dei coobbligati in solido.
E’ chiaro, infine, come l’iniziativa intrapresa dal contravventore non possa essere considerata propriamente diretta all'annullamento del verbale di contestazione dell'infrazione stradale ex art 204-bis del codice della strada, bensì al mero accertamento della sua illegittimità, al solo e specifico scopo di escludere che lo stesso possa fungere da titolo per irrogare a tale soggetto la sanzione della decurtazione del punteggio dalla patente di guida e da titolo per una eventuale azione di regresso”.
Anche alla luce del principio dell’interesse ad agire (art. 100 c.p.c.), pertanto, al soggetto che, con dichiarazione confessoria, si qualifichi conducente del veicolo al momento dell’infrazione contestata con notifica al solo proprietario, potrà essere riconosciuta legittimazione attiva a proporre ricorso, anche nell’ipotesi di acquiescenza e pagamento della sanzione pecuniaria da parte di quest’ultimo.
Va osservato, infine, che con sentenza 29.07.2008 n. 20564 (4) la Cassazione ha esplicitamente legittimato il conducente a proporre opposizione avverso il verbale di accertamento anche nell’ipotesi in cui non gli sia stato notificato il relativo verbale. In attuazione del diritto costituzionale alla difesa, la Cassazione ha ritenuto che, ancorchè non destinatario del verbale (e quindi soggetto non debitore in via esecutiva) il conducente abbia interesse soggettivo esclusivo a difendere se stesso dal rischio della sanzione della decurtazione dei punti dalla propria patente: ciò legittima la sua partecipazione al giudizio di opposizione anche in veste di unico ricorrente.
In sintesi si può osservare quanto segue:
il pagamento della sanzione pecuniaria in misura ridotta, entro il termine dei sessanta giorni dalla notifica del verbale e in data anteriore alla proposizione del ricorso, rende inammissibile quest’ultimo.
Il pagamento della sanzione pecuniaria, entro il termine dei sessanta giorni ma in data posteriore alla presentazione del ricorso, non rende inammissibile quest’ultimo. Né il detto pagamento deve essere valutato quale rinuncia implicita al ricorso: detta rinuncia deve risultare in modo palese ed esplicito.
È ammissibile il ricorso, nelle forme previste dall’art. 22 della legge 689/81, anche solo avverso la sanzione accessoria della decurtazione dei punti ed è competente il Giudice di Pace. Ciò realizza un sistema omogeneo di rimedi giurisdizionali avverso tutte le sanzioni comunque riconducibili a violazioni al Codice della Strada.
Il pagamento della sanzione pecuniaria in misura ridotta rende inammissibile qualunque contestazione relativa a:
fondatezza della violazione contestata;
sanzione pecuniaria irrogata.
anche in presenza di avvenuto pagamento della sanzione pecuniaria in misura ridotta, resta ammissibile il ricorso avverso le altre sanzioni accessorie, sospensione della patente e decurtazione dei punti.
Rimane aperto il problema relativo ai motivi di opposizione avverso il provvedimento della decurtazione dei punti, stante la definitività dell’accertamento in fatto della violazione.
Deve essere posta in rilievo la differenza delle situazioni soggettive fra proprietario del veicolo, che ha ricevuto la contestazione ed ha pagato la sanzione pecuniaria, e conducente (persona diversa dal proprietario) destinatario esclusivo della decurtazione, che voglia contestare in fatto la violazione.
Non è ragionevole, e non appare costituzionalmente corretto, non ammettere il conducente (reale responsabile della infrazione) alla contestazione giurisdizionale della fondatezza in fatto della violazione. In tal senso la Corte costituzionale sembra avere ammesso una sorta di pronuncia di illegittimità incidenter tantum del verbale, ai soli fini della possibilità di accoglimento del ricorso del conducente.
Diversamente argomentando, si dovrebbe ritenere ammissibile il ricorso avverso la decurtazione dei punti soltanto per motivi attinenti vizi formali del provvedimento o lacune della identificazione del conducente.
Gli effetti dell’esito del ricorso proposto dal solo conducente andranno a favore o sfavore soltanto di quest’ultimo; resta da escludere che il proprietario che ha pagato possa beneficiare dell’eventuale accoglimento del ricorso proposto dal solo conducente.
I destinatari della notifica
In caso di contestazione immediata il destinatario della notifica è la persona che viene rinvenuta alla guida del veicolo; ad esso, come già detto, si aggiungerà il proprietario del veicolo, se soggetto diverso.
In caso di contestazione differita, il destinatario della notifica del verbale sarà il soggetto che risulta intestatario dalle pubbliche scritture (5).
La conclusione appare ovvia e sicura; le automobili sono beni mobili iscritti in pubblici registri, soggetti quindi ad un regime speciale e distinto dal regime ordinario dei beni mobili. Alla P.A. non è richiesto un onere ulteriore di ricerca del soggetto, allorchè la risultanza del registro è sufficiente ad individuare il soggetto e il suo indirizzo.
Attualmente, a seguito della prevalente meccanizzazione dei servizi di accertamento e notifica dei verbali, la notifica sarà effettuata tramite servizio postale.
Si impongono alcune osservazioni in merito, che torneranno utili nel momento in cui si esaminerà l’opposizione a cartella esattoriale, fondata sull’unico motivo ammissibile, che è la mancata notifica del verbale di accertamento.
La modalità di notifica tramite posta è stata sostanzialmente uniformata a quella eseguita a mani dell’ufficiale giudiziario; l’ufficiale postale, pertanto, deve recarsi presso il domicilio indicato dal mittente e fare ricerca della persona del destinatario. In caso di suo mancato reperimento, deve cercare persone idonee e legittimate a ricevere e deve dare atto di tali operazioni. Deve quindi certificare a quale persona legittimata ha fatto consegna del plico, indicarne la qualità e condizione, provvedere ad inviare un avviso al destinatario, menzionando il numero della raccomandata relativa.
La mancanza dei detti requisiti è causa di nullità della notifica (6) e la notifica nulla non può produrre alcun effetto giuridico.
Va anche precisato che la dizione “trasferito”, apposta dall’ufficiale postale, non può dare origine ad una notifica valida. Ad analoga conclusione si perviene in presenza della dicitura “sconosciuto”.
La legge sulle notifiche postali precisa altresì la particolare notifica “per compiuta giacenza”; la premessa indispensabile per il perfezionamento degli effetti previsti da detta situazione è che il domicilio del destinatario risulti da iscrizione nei pubblici registri alla data della richiesta di notifica dell’accertamento. Infatti non può essere imposto alla P.A. l’onere di ulteriori ricerche nel momento in cui dal registri risulti un domicilio esatto e siano state eseguite le formalità previste dalla legge per la notifica tramite posta.
Per le notifiche per posta anteriori alla novella del 14.03.2005, n. 35 (e in caso di cartelle esattoriali potrà accadere che le notifiche dei verbali siano anteriori alla detta legge) si dovrà tenere conto che l’ufficiale postale non aveva gli obblighi sopradescritti. La validità della notifica, pertanto, andrà valutata in forza della normativa vigente alla data di richiesta della notifica da parte della P.A..
Mutamenti di indirizzo
E’ onere di diligenza del cittadino provvedere alle rituali comunicazioni di cambio di residenza e seguirne la tempestiva annotazione. Così dispone l’art. 94 del Codice della Strada.
Con i moderni sistemi informatici molti Comuni provvedono, oltre che al cambio di residenza, anche alla comunicazione del mutamento alla Motorizzazione (la quale provvede ad inviare al cittadino quanto necessario per completare la procedura).
Va osservato che il Comune esegue quanto detto soltanto in presenza della segnalazione da parte del cittadino della proprietà di un veicolo; in mancanza della detta segnalazione, in occasione del cambio di residenza, al Comune o alla Motorizzazione non potranno essere addebitate omissioni di sorta. La norma, infatti, dispone detto onere a carico del cittadino e ne sanziona esplicitamente l’omissione.
Analogamente è onere di diligenza del cittadino che si trasferisce porre in essere ogni accortezza utile in concreto a prendere notizia della corrispondenza che dovesse giungere al vecchio indirizzo; per tale comportamento non vi sono né termini di tempo né modalità prescritte dalla legge. Si tratta di un comune obbligo di diligenza, che deve essere prudentemente valutato nel caso concreto.
Non si può negare validità giuridica ad una notifica effettuata per “compiuta giacenza” nel domicilio risultante dai pubblici registri ove le formalità di legge siano state rispettate e nessun altro e diverso elemento di giudizio venga fornito al Giudice.
Va osservato, peraltro, quanto espresso da Cassaz. Civ. nella sentenza 3256 del 2008, che così si esprime:
“In tema di notifica a mezzo posta, l'art. 8 della legge n. 890 del 1982, letto alla luce della sentenza n. 346 del 1998 della Corte costituzionale, impone che la "vacatio" tra il deposito del plico presso l'ufficio postale per impossibilità di consegnarlo al destinatario e la restituzione del plico stesso al mittente abbia una durata ragionevole e tale da non frustrare le possibilità difensive del destinatario. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito secondo cui il deposito di un plico contenente decreto ingiuntivo doveva durare per tutto il periodo di tempo previsto per proporre opposizione, ed ha affermato che tale lettura della norma non è suffragata da alcun elemento ricavabile dalla legge)”. Conforme Cass. Civ. Sentenza n. 3256 del 10/02/2009
Termine per la notifica
In caso di contestazione differita il verbale deve essere notificato entro il termine perentorio di 150 giorni dal fatto (art. 201 Codice della Strada); come già visto la notifica va effettuata all’intestatario della proprietà che risulti dai pubblici registri; il termine dei 150 giorni ricomincia a decorrere dal momento in cui la P. A. sia posta nelle concrete condizioni per conoscere l’esatto nominativo dell’obbligato (Corte cost. sent. 198 del 1966 e Cassaz. Civ. sent 27936 del 2008 (7).
Degna di nota è altresì la più recente Cass. civile , sez. II, 06 febbraio 2009, n. 3043: “In tema di sanzioni amministrative, nel caso di mancata contestazione immediata della violazione, il momento dell'accertamento, in relazione al quale collocare il "dies a quo" del termine prescritto dall'art. 14, 2 comma, l. n. 689/81 per la notifica degli estremi di essa, non coincide con la conoscenza dei fatti nella loro materialità da parte dell'autorità alla quale è stato trasmesso il rapporto, ma va individuato in quello in cui l'autorità alla quale è stato trasmesso il rapporto abbia acquisito e valutato tutti i dati indispensabili ai fini della verifica dell'esistenza della violazione segnalata ovvero in quello in cui il tempo decorso, pur tenendo conto della complessità della fattispecie, non risulti ulteriormente giustificato dalla necessità di detta acquisizione e valutazione”.
Va peraltro precisato, alla luce delle suddette pronunce, che anche la P.A. è onerata della comune diligenza e che, pertanto, un vizio di notifica dovuto ad imprecisioni del richiedente la notifica non può legittimare il rinnovo del termine di decadenza.
Prescrizione
Come già chiarito da Cass. 23.11.1999, n. 12999, “alla formazione e trasmissione dei ruoli da parte del Prefetto per la riscossione delle somme dovute a titolo di sanzione amministrativa per violazioni al Codice della Strada non si applica l’art. 17 del dpr 602/73, in base al quale l’iscrizione nei ruoli delle somme accertate dagli uffici deve avvenire a pena di decadenza entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello in cui l’accertamento è divenuto definitivo, ma solo la prescrizione quinquennale prevista dall’art. 209 del nuovo codice della strada e dall’art. 28, legge 689/81”.
Chiarito, quindi, che l’azione di riscossione è soggetta esclusivamente al termine quinquennale di prescrizione, e non alla ben diversa sanzione della decadenza, va considerato il termine a quo per il decorso della detta prescrizione e i fatti interruttivi di essa.
Il dies a quo è certamente il giorno della commessa infrazione, come chiaramente indicato anche dall’art. 28 delle legge 689/81: il dies ad quem deve essere individuato nel giorno della consegna dei ruoli all’esattore, poiché con tale atto l’amministrazione compie l’atto di impulso alla procedura di riscossione (come disposto dalle norme già menzionate) e, allo stesso tempo, si priva del potere di compiere qualsiasi ulteriore atto diretto alla materiale riscossione della sanzione.
Il termine della prescrizione è interrotto dalla notifica del verbale, in quanto atto idoneo a costituire in mora il debitore ex art. 2943, 4° comma Cod. civile. Ciò è disposto dall’ultimo comma dell’art. 28 della legge 689/81 ed è stato altresì chiaramente recepito anche da Cass. 13.7.2001, n. 9520, Cass. 19.7.2000, n. 9492 e Cass. 4.4.2000, n. 4094. Infatti con la notifica del verbale il trasgressore è invitato al pagamento, con il beneficio del pagamento in misura ridotta, e con avviso che il mancato pagamento condurrà alla definitività dell’accertamento ed alla formazione del titolo. Sussistono quindi tutti gli elementi per la costituzione in mora del debitore.
Per gli atti esecutivi dell’esattore non risultava sancito un termine di prescrizione speciale e si riteneva che l’azione esecutiva fosse soggetta al termine ordinario dei dieci anni. Successivamente è intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza 15.07.2005, n° 280 che ha dichiarato la incostituzionalità dell'art. 25 del D.P.R. 602/1973 ("Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito"), nella parte in cui non prevede un termine, fissato a pena di decadenza, entro il quale il concessionario deve notificare al contribuente la cartella di pagamento delle imposte liquidate ai sensi dell'art. 36-bis del D.P.R. 600/1973 ("Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi"). E’ quindi intervenuto il legislatore disponendo che la notifica della cartella sia effettuata entro il termine di due anni dalla consegna del ruolo. (vedi LEGGE 24 dicembre 2007, n. 244 - legge finanziaria 2008 - all’art. 1 comma 153 che ha inserito l’art. 35 bis nel D.L. 30 settembre 2005, n. 203).
E’ pur vero che dalla data di consegna dei ruoli alla data di notifica della cartella trascorrono anni e che ciò comporta la decorrenza di interessi di mora, ma va altresì considerato che, una volta formato il titolo esecutivo, il debitore è moroso e gli interessi sono dovuti per il solo fatto non controverso della definitività del titolo e della circostanza certa del mancato pagamento
L’epoca della consegna dei ruoli deve sempre essere riportata nella cartella esattoriale.
Nell’esaminare la tempestività della notifica, e quindi la correttezza della formazione del titolo esecutivo, in presenza della relativa eccezione del ricorrente sarà onere della P.A. fornire la prova del fatto che rinnova il decorso del termine di 150 giorni, di cui si è già detto, e che concerne la decadenza e non la prescrizione.
Illegittime le notifiche affidate ad agenzia privata
La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza n. 20440 del 21 settembre 2006, ha statuito che sono da considerare “giuridicamente inesistenti” le notifiche delle multe fatte da società private di recapito - alle quali il Comune ha affidato il servizio di consegna di atti giudiziari. In tal guisa, le notifiche eseguite dai soggetti anzidetti sono equiparate all’omessa notificazione, pertanto, l’effetto giuridico è “l’estinzione dell’obbligazione di pagare la somma dovuta per violazione al Codice della Strada”.
In effetti, la legge 890/82 riserva all’amministrazione postale tutti gli adempimenti del procedimento di notificazione. In modo particolare l’art. 3 recita “l'ufficiale giudiziario scrive la relazione di notificazione sull'originale e sulla copia dell'atto, facendo menzione dell'ufficio postale per mezzo del quale spedisce la copia al destinatario in piego raccomandato con avviso di ricevimento. Presenta all'ufficio postale la copia dell'atto da notificare in busta chiusa, apponendo su quest'ultima le indicazioni del nome, cognome, residenza o dimora o domicilio del destinatario, con l'aggiunta di ogni particolarità idonea ad agevolarne la ricerca; vi appone, altresì, il numero del registro cronologico, la propria sottoscrizione ed il sigillo dell'ufficio…”. La stessa legge agli artt. 7 e 8 disciplina la parte relativa al recapito della notifica. Appare chiaro che le complesse formalità del combinato degli articoli ex ante richiamati “sono finalizzate a garantire il risultato del ricevimento dell’atto da parte del destinatario e attribuire certezza all’esito in ogni caso del procedimento di notificazione, costituendo un’attribuzione esclusiva degli uffici postali e degli agenti e impiegati addetti, con connotati di specialità essenzialmente estranei a quei servizi postali di accettazione e di recapito per espresso di corrispondenza che il direttore provinciale delle poste ha facoltà di dare in concessione secondo la previsione dell’art. 29 del D.P.R. 156/73 ad agenzie private alle quali gli artt. 129 e 138 del relativo regolamento attribuiscono le denominazioni rispettivamente di -Agenzia privata autorizzata alla accettazione e al recapito degli espressi in loco- e -Agenzia per il recapito degli espressi postali-”.
I giudici di legittimità hanno evidenziato che “la notificazione degli estremi della violazione affidata all’agenzia concessionaria a norma dell’art 29 del codice postale ed eseguita dai dipendenti della stessa agenzia si deve considerare giuridicamente inesistente e, come un omessa notificazione”. Per il Supremo Collegio le norme sulla notifica degli atti giudiziari impongono “con certezza” di “desumere che i relativi adempimenti non possono formare oggetto della concessione ai privati”.
Competenza per territorio
L’art. 22 - 1° comma della legge 689/81 attribuisce la competenza per territorio al Giudice del luogo ove è stata commessa la violazione. Con sentenza 20.04.2005, n. 8294(8) (conforme Cassaz. 23.11.2006, n. 24876) la Cassazione ha precisato che si tratta di competenza funzionale e inderogabile, rilevabile anche d’ufficio ma solo entro la prima udienza di trattazione.
Pertanto il Giudice di Pace, investito di ricorso avverso violazione al Codice della Strada commessa in territorio appartenente alla competenza di altro Giudice, deve rilevare tale incompetenza alla prima udienza e pronunciare sentenza con la quale dichiara la propria incompetenza funzionale ex art. 22, comma 1° della legge 689/81.
Ci si è posti il quesito se il Giudice di Pace che dichiara la propria incompetenza per territorio sia tenuto ad indicare il Giudice competente e se debba rimettere le parti dinanzi a quest’ultimo.
Premesso che per i giudizi dinanzi al Giudice di Pace non è esperibile il regolamento di competenza, né obbligatorio né facoltativo (art. 46 c.p.c. – Cass. 8294/2005 (9)), la Cassazione con sentenza 18 aprile 2008 n. 10236 (conforme Cass. 2703/1966) ha affermato che “rientra nel potere-dovere del Giudice adito l’identificazione del Giudice competente, anche se diverso da quello indicato dalla parte. Tale potere-dovere compete anche alla Corte di Cassazione in sede di regolamento, rientrando fra i compiti di detta Corte quello di riparare alla mancata indicazione del Giudice competente a parte del Giudice a quo che ha dichiarato la propria incompetenza territoriale”.
Nella motivazione la detta sentenza afferma esplicitamente che l’art. 44 c.p.c. impone al Giudice che dichiara la propria incompetenza per territorio di indicare il Giudice competente (e ciò coerentemente con i motivi che affermano la propria incompetenza).
Resta da considerare, tenuto conto della non esperibilità del regolamento di competenza, l’ipotesi che il Giudice ad quem si ritenga a sua volta non competente per territorio.
In merito Cassazione 04 agosto 2006, n. 17695 (10) ha affermato che, ove la parte non proponga appello avverso la sentenza che ha dichiarato l’incompetenza territoriale inderogabile, resta accertata incontestabilmente la competenza stabilita. Sembra di poter affermare, tuttavia, che ciò abbia valore obbligatorio nei soli confronti delle parti acquiescenti.
Avverso la sentenza del Giudice ad quem che si dichiari a sua volta non competente per territorio non resta che l’impugnazione o il ricorso per Cassazione.
Il Giudice di Pace che ritenga di non essere competente per territorio deve, quindi, indicare il Giudice competente; non è specificato se egli debba espressamente rimettere le parti dinanzi al Giudice competente, fissando il termine per la riassunzione.
Ove tale provvedimento fosse pronunciato, non si ravvisa alcuna nullità e le parti sono tenute all’osservanza del termine, o alla proposizione dell’impugnazione.
Ove il Giudice non dica nulla in ordine al termine di riassunzione, vale la norma di cui all’art. 50 cpc, dettata peraltro in relazione al regolamento di competenza, che impone alle parti l’obbligo di riassumere il giudizio entro tre mesi.
Alla conclusione predetta si perviene a seguito delle pronunce a sezioni unite della Cassazione in data 22 febbraio 2007, n. 4109 e 20 maggio 2008, n. 14831.
“Considerato che il giusto processo non è diretto allo scopo di sfociare in una decisione di mero rito, ma di rendere una pronuncia di merito stabilendo chi ha torto e chi ha ragione, in base a una lettura costituzionalmente orientata della disciplina della materia, che tenga conto delle argomentazioni emergenti dalle intervenute modifiche legislative e delle prospettazioni svolte di recente dalla dottrina, deve ritenersi che nell’ordinamento processuale è stato dato ingresso al principio della “translatio iudicii” dal giudice ordinario a quello speciale, e viceversa, in caso di pronuncia sulla giurisdizione (sia ad opera della Cassazione, sia ad opera di qualsiasi altro giudice)” (Cass. SS.UU. 4109/2007 ( 11)).
In applicazione al detto principio Cass. SS.UU. 14831/2008 (12) ha affermato il dovere per il Giudice adito che si ritenga in parte o in tutto incompetente per materia o per territorio inderogabilmente, di separare (se del caso) i processi, trattenendo presso di sé la parte di propria competenza e rimettendo le parti al Giudice competente per la parte residua.
Infine si rinviene un ulteriore argomento a sostegno del dovere del Giudice dichiaratosi incompetente per territorio di rimettere le parti dinanzi al Giudice competente, nel fatto che il ricorso avverso le sanzioni amministrative è soggetto a termine perentorio di proposizione della domanda e che la sentenza che pronuncia sulla incompetenza per territorio deve provvedere a conservare gli effetti sostanziali e processuali della domanda proposta, ancorchè detta domanda sia stata proposta a Giudice privo di competenza (si veda in proposito Corte Cost. 12 marzo 2007, n. 77(13).
In conclusione, il Giudice di Pace, adito con ricorso avverso sanzione amministrativa del Codice della Strada, ove ritenga la propria incompetenza inderogabile per territorio, deve dichiararla d’ufficio, indicando il Giudice competente e rimettendo le parti dinanzi a quest’ultimo (con o senza fissazione del termine utile per la riassunzione).
Ove la rilevata incompetenza fosse parziale, il Giudice dovrà separare i processi, trattenendo dinanzi a sé la domanda ritenuta di competenza e rimettendo le parti dinanzi al Giudice competente per la parte di competenza territoriale inderogabile di quest’ultimo.
Possibili modifiche della competenza per territorio per ragioni di connessione
Una volta accertata la natura della competenza del Giudice di Pace in tema di sanzioni amministrative connesse al Codice della Strada, si è posto il quesito se tale competenza, funzionale e inderogabile, possa subire modifiche in forza di ragioni di connessione, disciplinate dall’art. 40 c.p.c., nonché dagli artt. da 33 e 36 c.p.c..
L’ordinamento conosce altre figure di competenza funzionale e inderogabile, quale, ad esempio, la competenza a giudicare dell’opposizione a decreto ingiuntivo. La giurisprudenza costante e consolidata della Cassazione ha più volte affermato che, ove il Giudice dell’opposizione venga investito di una domanda connessa ma che risulti estranea alla sua competenza, egli è tenuto a separare i giudizi, trattenendo dinanzi a sé la causa in opposizione a decreto (in forza della inderogabilità della competenza funzionale) e rimettendo le parti dinanzi al diverso Giudice competente per la causa connessa(14).
Ad analoghe conclusioni occorre pervenire allorchè la incompetenza sia di carattere territoriale, nell’ipotesi di inderogabilità della stessa, determinata dalla legge(15).
Infatti in tali casi la competenza funzionale e inderogabile per territorio appare del tutto analoga alla competenza per materia, altrettanto funzionale e inderogabile; in simili condizioni le disposizioni attinenti le modifiche della competenza per ragioni di connessione non possono trovare applicazione (16).
Pertanto ove il Giudice di Pace, venga investito di una controversia che, pur presentando identità soggettiva ed oggettiva, faccia riferimento a fatti accaduti in luoghi diversi, che comportino la competenza (per materia o per territorio) funzionale e inderogabile di Giudici di Pace diversi, non potrà dare corso ad un simultaneus processus ma dovrà dichiararsi incompetente territorialmente per la causa avente ad oggetto il fatto accaduto fuori dalla sua giurisdizione, rimettendo le parti al Giudice competente; dovrà altresì trattenere la causa relativa al fatto accaduto nell’ambito territoriale di sua competenza, e ciò sia per ragioni di materia che per ragioni di territorio (17).
La posizione processuale dell’esattore
Si è quindi posto il quesito della posizione processuale dell’esattore nei giudizi di opposizione, in considerazione del fatto che l’esattore è un semplice delegato alla riscossione e non è il titolare della pretesa.
La Cassazione non è sempre stata univoca al riguardo; recentemente, tuttavia con sentenza 20.11.2007, n. 24154 (18), è stato definitivamente chiarito che anche l’esattore ha un proprio interesse alla partecipazione al giudizio di opposizione ed è quindi da ritenersi litisconsorte necessario.
Possiamo considerare due ipotesi:
prima ipotesi: il ricorrente eccepisce di non avere mai ricevuto la notifica del verbale di contestazione e propone ricorso ex art. 22, legge 689/81 contestando la formazione del titolo esecutivo. Anche se l’esattore è estraneo a tutto quanto forma oggetto del procedimento di formazione del titolo, egli ha comunque interesse a partecipare al giudizio, in quanto l’eventuale accoglimento del ricorso ha “innegabili riflessi nei rapporti con l’ente” che ha provveduto alla formazione dei ruoli. L’esattore, inoltre, prendendo parte al giudizio, è in grado di conoscere eventuali provvedimenti di sospensione o altri provvedimenti istruttori che, diversamente, non gli sarebbero opponibili.
seconda ipotesi: il ricorrente eccepisce vizi propri della cartella (è recente la discussione in ordine ai requisiti di sottoscrizione della cartella, dell’indicazione del responsabile del procedimento, affrontati dalla Corte costituzionale con ordinanza n. 377 del 09.11.2007 e dal cosiddetto decreto mille proroghe D.L. 31.12.2007 n. 248 convertito con modificazioni).
In tal caso, addirittura, l’esattore è il principale destinatario delle eccezioni del ricorrente, in quanto non viene in discussione la regolarità della formazione del titolo esecutivo, bensì la ritualità degli atti propri dell’esattore. L’eventuale accoglimento del ricorso avrebbe innegabili effetti anche nel rapporto fra ente impositore ed esattore e tale osservazione giustifica il litisconsorzio necessario per entrambi.
Le spese processuali
Un’ultima osservazione concerne le spese processuali. Anche in tema di sanzioni amministrative è pienamente ammissibile che il Giudice, nel pronunciarsi sull’accoglimento o meno del ricorso, decida se addebitare le spese al soggetto soccombente. Il concetto di soccombenza appare diverso da quello abitualmente adottato nel giudizio ordinario di cognizione, in considerazione della presunzione di legittimità dell’atto amministrativo.
Mentre, da un lato, un ricorso palesemente infondato e pretestuoso può giustificare la condanna alle spese del ricorrente soccombente, non altrettanto può dirsi in caso di accoglimento del ricorso; non è così automatico che all’accoglimento del ricorso debba conseguire la condanna dell’ente alle spese processuali. Andrà valutato il caso concreto per rinvenire eventuali atti illegittimi, compiuti dalla pubblica amministrazione nelle sequenza obbligata degli atti descritta dalla legge.
Analogamente l’esattore potrà essere chiamato a rispondere di eventuali negligenze compiute dopo la formazione del ruolo e nel corso degli atti di sua competenza per la procedura di riscossione.
Non può quindi escludersi che, in caso di accoglimento del ricorso in opposizione all’esecuzione (art. 615 c.p.c.) o agli atti esecutivi (art. 617 c.p.c.), l’esattore, o l’ente creditore della sanzione, possano essere condannati al pagamento delle spese processuali, in ragione di accertati elementi di soccombenza.
In tal senso Cass. civ. 19.11.2007, n. 23993 espone che nel valutare la soccombenza e la conseguente condanna alle spese processuali, non si può omettere di considerare che, seppure in casi particolari, il cittadino può essere assoggettato ad esazione senza che ne ricorrano i presupposti e che, in tal caso, egli venga a trovarsi nella condizione di dover far valere le proprie ragioni in un giudizio, con l’accollo delle spese relative. Adire il Giudice e farsi assistere professionalmente costituiscono, in simili casi, l’attuazione concreta di un diritto inviolabile previsto dall’art. 24 della Costituzione.
Brevi cenni sull’autotutela e la cessazione della materia del contendere
La Pubblica amministrazione ha il compito istituzionale di perseguire l’interesse pubblico, con un margine di discrezionalità che deve comunque rispettare i criteri della competenza, senza violazione di legge né eccesso di potere. Restando nell’ambito del potere di imperio, preordinato al raggiungimento dell’interesse collettivo, va collocata la potestà di autotutela, cioè dell’esercizio del potere di revoca o modifica dei propri provvedimenti; ciò potrà avvenire su sollecitazione del soggetto interessato, ma anche in forza di procedimento interno autonomo.
La revisione o revoca di propri provvedimenti si svolge sempre nell’ambito di un potere discrezionale (19).
In relazione alla possibilità della revoca di provvedimenti amministrativi si pone la eventualità che l’oggetto di un giudizio venga direttamente influenzato da essi, rendendo superflua una decisione. In tali casi si pone il profilo processuale della “cessazione della materia del contendere”.
Quanto sopra si verifica in tutti quei casi in cui la decisione del Giudice non presenta più alcun interesse per alcuna delle parti, in quanto è venuto meno, nel frattempo, quanto formava oggetto del contenzioso; la parte attrice, pertanto, (includendo in tale ruolo anche l’attore in riconvenzionale e il convenuto che ha interesse al rigetto della domanda) non è più portatrice dell’interesse ad agire, cioè della necessità di ottenere dall’Autorità giudiziaria un provvedimento che restituisca dignità al valore giuridico leso (20).
Il Giudice deve porsi d’ufficio il quesito se la mutata condizione di fatto e di diritto venutasi a creare, con il sostanziale soddisfacimento dell’interesse dedotto in giudizio, corrisponda in concreto all’accoglimento della domanda ad opera del convenuto o se sia riconducibile a reciproche concessioni e, quindi, ad una sostanziale transazione fra opposti interessi (21).
Solo nel caso in cui l’esercizio della potestà di autotutela o lo spontaneo adempimento del convenuto, corrispondano all’accoglimento integrale della domanda dedotta in giudizio, il Giudice, nel dichiarare la cessazione della materia del contendere, potrà pronunciarsi anche sulle spese. In tal caso, infatti, si realizza una sostanziale soccombenza del soggetto che ha revocato il proprio atto solo in conseguenza della promozione dell’azione. Si parla, in tali casi, di “soccombenza virtuale”.
La convalida del provvedimento in prima udienza, ex art. 23, Legge 689/81
La Corte costituzionale è intervenuta sulla norma in oggetto con le sentenze n. 534 del 1990(22) e n. 507 del 1995(23); con entrambe le dette decisioni la Corte ha inteso negare un male inteso automatismo fra assenza del ricorrente e rigetto del ricorso, con correlativa conferma del provvedimento impugnato.
Le decisioni in esame fanno riferimento alla tutela del diritto alla difesa, precisando la portata dell’onere della prova, rispettivamente a carico della P.A. e del privato ricorrente.
Quanto ora esposto va collegato con il principio, già affermato da Cass.civile sentenza n. 8037/2002(24) che tutto quanto è ritualmente acquisito al fascicolo dell’opposizione deve essere esaminato dal Giudice e può essere posto a fondamento della sua decisione.
Con la sentenza del 1990, n. 534 la Corte aveva deciso che non era costituzionalmente corretto convalidare il provvedimento, in assenza del ricorrente, ove la illegittimità dell’atto risultasse comunque da elementi acquisiti.
Con la sentenza del 1995, n. 507 la Corte ha applicato il medesimo principio di fondo al rapporto con la P.A., che ha l’onere di fornire la prova della fondatezza della pretesa sanzionatoria ed ha altresì l’obbligo di inviare la documentazione al Giudice dell’opposizione.
In mancanza di adempimento a detto onere, e quindi in assenza della P.A. sia per il mancato intervento di funzionario in udienza sia per il mancato inoltro della documentazione, il Giudice deve valutare se, dall’esame degli atti acquisiti al procedimento, la pretesa sanzionatoria risulta sufficientemente provata o meno.
La linea interpretativa appare corretta in quanto riferita al diritto di difesa ed al principio dell’onere della prova. Fermo restando il potere del Giudice, in detta materia, di intervenire officiosamente e disporre tutti i mezzi istruttori ritenuti utili, la P.A. mantiene il suo onere di fornire ogni dato sufficiente a dimostrare la fondatezza della pretesa; in caso di inadempimento a detto onere il Giudice, anche in assenza del ricorrente, potrà giudicare non provata la legittimità della pretesa.
Per analoghi motivi, ove la pretesa dovesse risultare comunque fondata, pur in assenza della documentazione inviata dalla P.A., non vi sono ragioni per non procedere alla convalida.
In tal caso la evidenza della legittimità non trova nell’assenza della P.A. un valido motivo di diritto per l’annullamento della pretesa.
All’opponente incombe l’onere di fornire ogni elemento utile a dimostrare la illegittimità della pretesa, o perlomeno l’incertezza sul suo fondamento (il giudizio di opposizione, infatti, ha ad oggetto l’accertamento negativo del fondamento della pretesa sanzionatoria).
Sulla P.A. incombe l’onere di provare la legittimità della pretesa sanzionatoria; l’incertezza sulla prova giova al ricorrente, ancorchè assente.
L’assenza delle parti, o la mancanza della documentazione, non esonera il Giudice dall’esame della fattispecie attraverso i soli elementi di giudizio acquisiti al procedimento (in genere l’originale del verbale o dell’ordinanza ingiunzione o della cartella esattoriale).
Osserva la Corte che occorre delineare una speculare equivalenza fra
la prova documentale della illegittimità dell’atto (che in forza della sentenza 534/1990 impedisce di convalidare l’atto anche in assenza del ricorrente);
l’insussistenza della prova della legittimità dell’atto, a causa del mancato assolvimento dell’onere di invio della documentazione (che in forza della sentenza 534/1990 impedisce di convalidare l’atto anche in assenza del ricorrente).
In prima udienza e in assenza delle parti il Giudice potrà annullare o confermare la pretesa in forza della verifica dell’adempimento all’onere della prova ed al convincimento raggiunto a seguito dell’esame condotto, con il solo obbligo della puntuale motivazione (25).
Legittimità della maggiorazione prevista dall’art. 27 della legge 689/81
Definizione del problema:
L’art. 27 della legge 689/81 prevede al 6) che, in caso di ritardo nel pagamento, la somma dovuta è maggiorata di un decimo per ogni semestre a decorrere da quello in cui la sanzione è esigibile. A tale addebito provvede l’esattore, incaricato della riscossione in forza della normativa che disciplina la riscossione delle entrate patrimoniale dello Stato.
Il quesito concerne la legittimità di detto addebito, in relazione a sanzioni per violazioni al Codice della Strada (CdS), contenute nelle cartelle esattoriale notificate al debitore.
L’ufficio del Giudice di Pace di Roma ha assunto l’orientamento favorevole alla dichiarazione di illegittimità della detta maggiorazione.
Norme rilevanti:
Art. 203 CdS
Art. 206 CdS
Art. 209 CdS (prescrizione)
Art. 17 della legge 689/81
Art. 27 della legge 689/81
Art. 28 della legge 689/81 (prescrizione)
Sul quesito principale
Va premesso che la legge 689/81, all’origine predisposta per depenalizzare una serie di reati in illeciti amministrativi, è stata nel tempo trasformata nella disciplina fondamentale da applicare per tutte le sanzioni amministrative, sia per quanto concerne la fase contenziosa e di esercizio del diritto di difesa, sia per la parte relativa alla formazione del titolo esecutivo e la riscossione di quanto dovuto. La premessa diventa fondamentale per poter coordinare norme nate successivamente e che alla detta legge rinviano per taluni adempimenti.
L’art. 17 della legge 689/81 prevede la formazione di un rapporto, a cura del funzionario che ha accertato l’infrazione, da indirizzare al Prefetto per l’adozione dell’ordinanza ingiunzione. Tale ordinanza, nell’originaria formulazione della procedura di riscossione, costituiva il presupposto per l’avvio della fase esecutiva.
In tema di violazioni alla circolazione stradale l’art. 203 CdS al comma 3) ha disposto che, in caso di mancato pagamento della sanzione e di mancato ricorso, il verbale acquista direttamente l’efficacia di titolo esecutivo, in deroga all’art. 17 predetto.
Una corretta riflessione in ordine al detto concetto di deroga porta a concludere che, per le sole violazioni al CdS, il funzionario che ha accertato la violazione non è tenuto (appunto in deroga all’art. 17) a redigere rapporto al Prefetto ai fini dell’emissione dell’ordinanza ingiunzione. Ciò in quanto il verbale acquisita di per sé efficacia di titolo esecutivo e non ha bisogno dell’atto prefettizio per dare avvio alla riscossione.
Una volta così chiarita la portata della deroga disposta dall’art. 203 CdS, ci si deve porre il problema dell’analisi della fase di riscossione.
L’art. 206 CdS rinvia esplicitamente (e semplicemente) all’art. 27 della legge 689/81; si tratta di un rinvio sistematico e generalizzato ad un’unica disciplina della riscossione, senza distinzione fra titoli esecutivi originati da procedimenti differenti. In altre parole, la detta norma, rinviando all’art. 27, uniforma la riscossione delle sanzioni da violazioni al CdS alla riscossione di qualunque altro credito disciplinato alla medesima legge 689/81.
Non vi è dubbio che la scelta di prescrivere una, ed una sola, procedura di riscossione sia dettata dalla necessità di non provocare disparità di trattamento e di convogliare in un'unica modalità una fase delicata di azione esecutiva.
Per quanto detto in apertura, la riscossione della sanzione può essere effettuata anche attraverso la procedura di ingiunzione di cui al R.D. 14.04.1910, n. 639 ma ciò deve essere eseguito seguendo anche le disposizioni contenute nel titolo II del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, in quanto compatibili .(26)
Va inoltre considerato che la procedura di riscossione scelta dall’ente creditore non deve comportare ulteriori oneri a carico del debitore, con il pregiudizio che potrebbe derivare da una disparità di trattamento a seconda della procedura adottata.
E’ stata rilevata una apparente discrepanza fra il disposto dell’art. 203 e il rinvio disposto dall’art. 206 CdS. L’art. 203, infatti, sembra attribuire efficacia esecutiva al verbale (in deroga all’art. 17) per il solo importo della sanzione e per le spese del procedimento. E’ stato quindi sostenuto che il titolo esecutivo non comprenderebbe altre voci di credito, oltre a quelle espressamente previste dall’art. 203 CdS (27).
L’apparente contrasto fra l’art. 203 CdS e l’art. 27, legge 689/81 (cui rinvia l’art. 206 CdS) va risolto nel senso di ritenere che, secondo la normativa generale della riscossione delle entrate patrimoniali dello Stato, ogni ritardo nel pagamento di quanto dovuto e definitivamente accertato dà origine all’addebito di interessi e/o penalità; la misura e modalità di tali accessori sono determinati in via generale dall’art. 27, che prevede la maggiorazione di un decimo per ogni semestre.
Va anche rilevato che la detta maggiorazione è pari al 5% annuo della somma dovuta e che, per quanto disposto dalla medesima norma, essa assorbe l’addebito per interessi eventualmente previsti da altre norme.
Infine è appena il caso di osservare che il tasso dell’interesse legale è pari al 3% annuo e che, pertanto, la norma di cui all’art. 27 finisce per disporre una misura unica che comprende penalità e interessi connessi al concetto generale di ritardato pagamento del dovuto.
D’altronde non si vede per quale ragione debba essere negata alla Pubblica amministrazione la possibilità di riscuotere interessi per un proprio credito, nonché le spese per la sua riscossione, in forza dei principi generali sanciti dagli artt. 1196 e 1828 e seguenti del Codice civile e dall’art. 95, Cod. procedura civile.
Coordinando in via sistematica le norme predette non si rinviene un motivo di illegittimità nell’addebito con cartella esattoriale della maggiorazione prevista dall’art. 27 della legge 689/81.
Motivi di opposizione alla cartella
Il trasgressore, al quale viene notificata cartella esattoriale, potrà ugualmente proporre ricorso avverso detta cartella ma la Cassazione (28) ha precisato che detta opposizione potrà essere proposta con le forme di cui all’art. 22 della legge 689/81 soltanto nel caso in cui il ricorrente sostenga di non avere mai ricevuto la notifica del verbale di contestazione. In tal caso, con la sent. n.17312 del 07.08.2007, la Suprema Corte ha determinato in sessanta giorni il termine utile al ricorso, in quanto attraverso l’impugnazione della cartella, non preceduta dalla notifica del verbale, il ricorrente si trova per la prima volta nella concreta possibilità di contestare il fondamento della pretesa sanzionatoria e con il ricorso recupera la sua posizione di diritto che gli permette di esercitare il diritto di difesa avverso un verbale di contestazione non altrimenti conosciuto.
In ogni altro caso di ricorso fondato su altro tipo di eccezioni, andrà proposta opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. (o ex art. 617 c.p.c. per eventuali vizi degli atti esecutivi).
Resta il dubbio di come valutare il ricorso ex art. 22, legge 689/81 che contenga eccezioni proponibili con i ricorsi previsti dal codice di procedura civile (artt. 615 e 617 c.p.c.).
Sul rito processuale da applicare
Accertato che avverso la cartella può essere proposto ricorso ex art. 22 della legge 689/81 al Giudice di Pace soltanto allorchè il ricorrente eccepisca la mancata notifica del verbale di contestazione o dell’ordinanza-ingiunzione, le eccezioni fondate sulla mancanza di legittimità del credito o sulla assenza del titolo esecutivo sono tipiche delle opposizioni all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., poiché contestano il diritto del creditore di procedere in via esecutiva.
Ci si è posti il problema della valutabilità, in sede di ricorso amministrativo ex art. 22, legge 689/81 avverso la cartella esattoriale, delle eccezioni oggetto delle opposizioni ex artt. 615 e 617 c.p.c.; è lecito e doveroso, soprattutto osservando che nella maggior parte dei casi il ricorso avverso la cartella è proposto personalmente dalla stessa parte interessata e senza l’assistenza di difensore, domandarsi se il motivo sostanziale del ricorso (tipico della opposizione alla esecuzione) possa essere esaminato e posto a fondamento della decisione in un ambito processuale (quello amministrativo) che non lo permetterebbe.
Le massime della Cassazione rinvenute in tema, sembrano indicare un regime tassativo e vincolante per il rito scelto e introdotto dal ricorrente; se proposto con ricorso ex art. 22, legge 689/81, il gravame avverso la cartella non permette al Giudice di modificare né la causa petendi né il petitum, a causa della specialità del rito (29).
Le norme processuali sono norme di ordine pubblico, non derogabili, e il rito previsto dalla legge 689/81 appare del tutto speciale e diverso da quello ordinario, con il quale dovrebbero essere trattate le cause in opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c..
Anche se la Cassazione ha più volte affermato che, per tutto quanto non disciplinato espressamente dalla legge 689/81 occorre richiamarsi alle norme che disciplinano il giudizio civile ordinario, non si può fare a meno di rilevare che tutto l’impianto del rito di cui alla legge 689/81 appare improntato alla massima specialità (si vedano le norme dettate ai fini delle modalità di proposizione, della documentazione da produrre, dei termini a comparire, degli obblighi dell’ufficio, dei poteri officiosi del Giudice, della ripartizione di competenza ratione materiae, della nullità della sentenza se del dispositivo non viene data lettura in udienza alla fine della discussione). Il vincolo alla ritualità è stato anche più volte affermato con riferimento alla forma dell’appello, che risulta vincolato dal rito applicato, anche se erroneamente, in sede di giudizio di primo grado.
Né sembra tecnicamente possibile un mutamento del rito, convertendo un ricorso proposto con la legge 689/81 in un rito ordinario ex art. 615 c.p.c., al solo scopo di dare una veste processuale corretta, ad esempio, all’eccezione di illegittimità della maggiorazione ex art. 27, pur in presenza di un titolo esecutivo formatosi a seguito della corretta notificazione del verbale di accertamento.
L’introduzione del ricorso con il rito di cui alla legge 689/81 vincola il Giudice all’osservanza di tutto quanto in via speciale sancito nella predetta legge, incluso l’obbligo di attenersi ai vizi denunciati dal ricorrente, alla causa petendi dallo stesso introdotta ed al relativo petitum (“annulla-conferma” la pretesa sanzionatoria).
Ove il ricorrente introduca con il ricorso una eccezione relativa al diritto del creditore di procedere per una voce accessoria alla sanzione, il ricorso dovrebbe essere dichiarato inammissibile (vedere Cassaz. Sez. unite sentenze n. 491 del 13.07.2000 e n. 562 del 10.08.2000, e la nota 16).
L’opposizione ex art. 615 c.p.c. si propone con citazione ad udienza fissa, dinanzi al Giudice competente per il giudizio ordinario e nei limiti della competenza per valore. L’attore deve provvedere alle notifiche ed all’iscrizione a ruolo; l’onere della prova incombe sull’opponente e il Giudice potrà emettere una sentenza che accerterà e dichiarerà se il creditore aveva o meno il diritto di procedere in via esecutiva.
Il provvedimento in tema di sanzioni amministrative, pertanto, non sarebbe più “annulla la pretesa” (tipico provvedimento con valore ex tunc), bensì “dichiara non dovuta parte del credito” (tipico provvedimento con valore ex nunc, cioè fondato sul presupposto della legittimità originaria della pretesa ma della sua successiva estinzione per accertamento dell’autorità giudiziaria).
Principio della conservazione degli atti nulli
La disposizione dell’art. 156 c.p.c. può trovare applicazione anche in tema di ricorsi amministrativi introdotti con il rito previsto dalla legge 689/81 in quanto la Cassazione ha affermato che, per tutto quanto non previsto in detta legge, si applicano le norme previste per il rito ordinario civile.
Inoltre la Suprema Corte, decidendo in tema di impugnazione di cartella esattoriale proposta dinanzi a Giudice non competente per materia, ha insistito nell’affermazione del principio della translatio iudicii, in forza del quale non va semplicemente affermata la incompetenza o la inammissibilità ma vanno rimesse le parti dinanzi al Giudice competente, salvaguardando il diritto di difesa (costituzionalmente garantito) (30)
L’atto di impugnazione della cartella, ancorchè erroneamente proposto con ricorso ex art. 22 della legge 689/81, può essere conservato quale atto sostanziale a condizione che sia rispettato il principio del contraddittorio.
Pertanto:
se la PA si è costituita (ritenendo con ciò il rituale deposito di atto difensivo e non la semplice trasmissione dei documenti non accompagnata da una esplicita presa di posizione in ordine alla domanda di annullamento del verbale o cartella), non sussiste nullità o inammissibilità del ricorso (salvo quanto si dirà sulle formalità del rito).
se la PA non si è costituita, deve essere ordinata dal Giudice la rinnovazione dell’opposizione nelle forme di cui all’art. 615 c.p.c..
Alla conclusione predetta si perviene a seguito delle pronunce a sezioni unite della Cassazione in data 22 febbraio 2007 n. 4109 e 20 maggio 2008, n. 14831.
“Considerato che il giusto processo non è diretto allo scopo di sfociare in una decisione di mero rito, ma di rendere una pronuncia di merito stabilendo chi ha torto e chi ha ragione, in base a una lettura costituzionalmente orientata della disciplina della materia, che tenga conto delle argomentazioni emergenti dalle intervenute modifiche legislative e delle prospettazioni svolte di recente dalla dottrina, deve ritenersi che nell’ordinamento processuale è stato dato ingresso al principio della “translatio iudicii” dal giudice ordinario a quello speciale, e viceversa, in caso di pronuncia sulla giurisdizione (sia ad opera della Cassazione, sia ad opera di qualsiasi altro giudice)” (Cass. SS.UU. 4109/2007( 31)).
Qualificazione della domanda e possibili soluzioni sul rito da applicare
Alla luce di quanto chiarito, occorre ora determinare come comportarsi se il motivo di ricorso è da ricomprendere fra quelli di cui all’art. 615 e il ricorso è proposto con l’art. 22.
Sussiste un vizio di forma della proposizione della domanda ed una violazione delle norme tributarie (contributo unificato, copie, notifiche). NON si deve parlare di conversione del rito, perché non è previsto.
E’ un problema di qualificazione della domanda, che spetta al Giudice il quale, solo in forza di tale potere può decretare la ammissibilità sostanziale dell’impugnazione della cartella.
Una corretta soluzione processuale può articolarsi come segue:
dare atto a verbale che, in relazione alla domanda, l’azione proposta deve qualificarsi quale opposizione ex art. 615 c.p.c.;
invitare parte ricorrente all’adempimento degli obblighi fiscali con il versamento del contributo unificato;
in caso di mancata costituzione della PA, disporre la rinnovazione della convocazione della PA tramite notifica (a cura della parte) del provvedimento del Giudice.
Al momento della decisione nel merito:
dare atto in sentenza della qualificazione giuridica della domanda;
adeguare il dispositivo secondo le seguenti possibilità:
accerta e dichiara che l’ente creditore non aveva il diritto di procedere in via esecutiva in quanto (esporre il motivo del vizio della iscrizione a ruolo esattoriale);
annulla la cartella in quanto la pretesa sanzionatoria era da considerarsi estinta;
annullare in parte la cartella in quanto la pretesa creditoria non era legittima nella misura di ……..
In particolare l’art. 126 bis
La più recente pronuncia in materia è Cassaz. 12.06.2007, n. 13748 (32), che specifica il costante obbligo per il proprietario di conoscere l’identità della persona che conduce il veicolo di sua proprietà e, conseguentemente, sanziona l’omessa indicazione del conducente o la comunicazione che non permetta la sua identificazione.
Il dibattito è aperto e da più parti si oppone la insostenibilità di un obbligo giuridico di annotare il nome di colui al quale viene affidato il veicolo. Poiché dobbiamo sempre fare i conti con il dettato della norma e le leggi sono approvate dal parlamento (anche quando sono inique o lacunose) occorre procedere in modo sistematico.
A seguito della contestazione non immediata di una violazione che comporti la decurtazione di punti della patente, con contestuale invito a comunicare i dati della persona fisica del conducente, si potranno verificare varie ipotesi di comportamento da parte del proprietario del veicolo:
Il proprietario dell’auto non comunica i dati del conducente; in forza della sentenza della Corte costituzionale n. 27/2005 non si procederà a decurtazione di punti ma si applicherà al proprietario la sanzione di cui all’art. 126 bis, n. 2.
Il proprietario comunica i dati del conducente: non si procederà ad applicazione di alcuna sanzione a carico del proprietario ma si aprirà una fase di contestazione ed accertamento a carico della persona indicata quale conducente. Resta la responsabilità personale del proprietario per eventuali false dichiarazioni.
Il proprietario fornisce una risposta che non contiene elementi di identificazione del conducente, oppure precisa di non poter fornire i dati del conducente e motiva tale omissione con la impossibilità di accertare i movimenti dell’auto all’epoca della violazione, o con altra argomentazione. E’ il caso più frequente che riguarda, soprattutto ma non solo, le cosiddette auto aziendali o comunque intestate a persone giuridiche.
E’ stato opportunamente posto il quesito di quale sia il fondamento giuridico della norma di cui all’art. 126 bis che, nell’ultima parte del punto 2), dispone a carico del proprietario un obbligo giuridico di comunicazione di dati e, successivamente, prevede la sanzione per l’omissione di detta comunicazione. Come già ricordato dalla Corte costituzionale, la giustificazione risiede nella normativa generale della responsabilità soggettiva prevista dagli artt. 40 e 41 C.P., applicabili anche in tema di responsabilità civile o comunque personale (Cass. civ. 8 agosto 2000, n. 10414 – Cass. Sez. unite 11 settembre 2002, n. 30328). Il secondo comma dell’art. 40 C.P. dispone che “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. Anche il diritto civile, in ogni caso, conosce la responsabilità omissiva, quale violazione di uno specifico obbligo di fare.
Si può osservare che la comunicazione dei dati del conducente non equivale ad ammissione dell’addebito, assolvendo ad una semplice operazione storica di accertamento della conduzione del veicolo; non sembra che, sotto un profilo sistematico, tale risposta possa essere del tutto esauriente.
Non vi può essere dubbio che dalla richiamata norma discendano per il proprietario del veicolo due distinte conseguenze: sia l’obbligo di comunicazione dei dati del conducente, sia la sanzione relativa alla violazione di detto obbligo. Si tratta di fattispecie disciplinate distintamente, con separato regime sanzionatorio (art. 126 bis e art. 180 CdS) e tali norme sono frutto di un potere discrezionale del legislatore che non viola alcun principio costituzionale.
Resta da considerare l’inciso previsto dalla norma in ordine alla ipotesi di un giustificato motivo; si tratta di una esimente aperta, suscettibile di valutazione ponderata in rapporto al caso concreto. Il conflitto che si preannuncia riguarderà, da un lato, l’interesse pubblico alla repressione delle condotte illecite e la punizione dell’effettivo responsabile, mentre, dall’altro lato, si porrà la valutazione del fatto oggettivo che, pur sussistendo l’obbligo del cittadino alla collaborazione con l’ente pubblico per il raggiungimento di scopi di interesse collettivo, “ad impossibilia nemo tenetur”.
Il primo quesito concerne l’individuazione del soggetto competente alla valutazione del giustificato motivo addotto per la omissione dei dati del conducente. Poiché il destinatario primo della comunicazione del proprietario è l’autorità procedente, quest’ultima è titolare in via istituzionale del potere di valutazione discrezionale della fondatezza o meno delle motivazioni addotte, anche sotto il profilo dell’esercizio nell’interesse pubblico del potere di autotutela. Qualora, quindi, la P.A. ritenesse, per propria valutazione, di non procedere ad applicazione alcuna di sanzione a carico del proprietario, a causa della sussistenza di un giustificato motivo, nessuna illegittimità sarebbe riscontrabile in una simile decisione.
Ma l’ipotesi più probabile sarà quella dell’applicazione della sanzione, in forza dell’argomentazione contenuta alla lettera c) del punto 2) della circolare ministeriale del 4.2.2005 n. 300/A/1/41236/109/16/1. In detto documento si pone l’accento in via esclusiva sull’effetto prodotto dalla omissione dei dati, sottolineando il pregiudizio dell’interesse pubblico a perseguire l’effettivo responsabile dell’illecito. Tuttavia in tanto può comminarsi una sanzione ad un soggetto in quanto sussista a carico dello stesso una responsabilità; non basta il solo effetto negativo dell’impunità del conducente per poter affermare che, con certezza inoppugnabile, sussista una responsabilità in capo al proprietario. E’ consolidato, sia in dottrina che in giurisprudenza, il convincimento della necessità di un accertamento rituale e puntuale del nesso di causalità fra condotta del soggetto ed evento negativo prodotto. Nella predetta circolare si vuole accreditare l’ipotesi di un automatismo fra insufficienza dei dati forniti dal proprietario ed obbligo della sanzione di cui all’art. 126 bis. Ma non è così semplice.
Nella fattispecie, infatti, non si può evitare di verificare che fra il contenuto della risposta e l’evento negativo della mancata punizione del responsabile possa sussistere una esimente della responsabilità omissiva a carico del proprietario del veicolo. Tale compito, molto verosimilmente, sarà affidato al Giudice di Pace nel momento in cui il proprietario, avendo ricevuto la sanzione di cui all’art. 126 bis, proponga ricorso sostenendo di avere rappresentato un giustificato motivo di impossibilità di fornire i dati del conducente.
In tal senso si è espressa la sentenza della Corte costituzionale n. 165/2008. Nel rigettare l’eccezione di incostituzionalità, la Corte osserva come il giudice rimettente “non avesse attribuito il dovuto rilievo «alla circostanza che agli illeciti amministrativi contemplati dal codice della strada si applica la disciplina generale dell'illecito depenalizzato di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), il cui art. 3, nel subordinare la responsabilità all'esistenza di un'azione od omissione che sia "cosciente e volontaria", ha inteso, appunto, prevedere il caso fortuito o la forza maggiore quali circostanze idonee ad esonerare l'agente da responsabilità”.
Prosegue la detta sentenza osservando che “di conseguenza, la medesima ordinanza n. 244 del 2006, «alla stregua di tale duplice argomento ermeneutico (letterale e sistematico)», ha affermato che tra le varie interpretazioni della norma oggi censurata rientra anche quella che riconosce «la possibilità di discernere il caso di chi, inopinatamente, ignori del tutto l'invito "a fornire i dati personali e della patente del conducente al momento della commessa violazione", da quello di colui che, "presentandosi o scrivendo", adduca invece l'esistenza di motivi idonei a giustificare l'omessa trasmissione di tali dati».
Conclude la Corte “che debba essere riconosciuta al proprietario del veicolo la facoltà di esonerarsi da responsabilità, dimostrando l'impossibilità di rendere una dichiarazione diversa da quella "negativa" (cioè a dire di non conoscenza dei dati personali e della patente del conducente autore della commessa violazione); è una conclusione che discende anche dalla necessità di offrire della censurata disposizione, nella parte in cui richiama l'art. 180, comma 8, del medesimo codice della strada, un'interpretazione coerente proprio con gli indirizzi ermeneutici formatisi in merito alla norma richiamata, e secondo i quali essa sanzionerebbe il «rifiuto» della condotta collaborativa (e non già la mera omessa collaborazione) necessaria ai fini dell'accertamento delle infrazioni stradali. Inoltre, come anche affermato da questa Corte con l'ordinanza n. 434 del 2007, appare necessario precisare - per fugare «persistenti dubbi nell'interpretazione del testo originario dell'art. 126-bis, comma 2, del codice della strada» - che la scelta in favore di «un'opzione ermeneutica, che pervenisse alla conclusione di equiparare ogni ipotesi di omessa comunicazione dei "dati personali e della patente del conducente al momento della commessa violazione", presenterebbe una dubbia compatibilità con l'art. 24 Cost.»; essa, infatti, «non consentendo in alcun modo all'interessato di sottrarsi all'applicazione della sanzione pecuniaria, si risolverebbe nella previsione di una presunzione iuris et de iure di responsabilità», con conseguente «lesione del diritto di difesa», dal momento che risulterebbe preclusa all'interessato «ogni possibilità di provare circostanze che attengono alla propria effettiva condotta». Resta, dunque, confermata, nell'applicazione anche del testo originario dell'art. 126-bis, comma 2, del codice della strada, la necessità di distinguere il comportamento di chi si disinteressi della richiesta di comunicare i dati personali e della patente del conducente, non ottemperando, così, in alcun modo all'invito rivoltogli (contegno per ciò solo meritevole di sanzione) e la condotta di chi abbia fornito una dichiarazione di contenuto negativo, sulla base di giustificazioni, la idoneità delle quali ad escludere la presunzione relativa di responsabilità a carico del dichiarante dovrà essere vagliata dal giudice comune, di volta in volta, anche alla luce delle caratteristiche delle singole fattispecie concrete sottoposte al suo giudizio”.
E’ lecito chiedersi a quali riscontri oggettivi potrà fare riferimento il Giudice, posto che le giustificazioni meramente soggettive non potranno costituire una esimente giuridicamente valida.
E’ appena il caso di ricordare che l’esenzione da responsabilità, pur in presenza di un illecito certo, costituisce un fatto eccezionale e che, pertanto, l’ipotesi dovrà essere esaminata con particolare prudenza e rigore. Il Giudice dovrà fare riferimento, per quanto possibile, a riscontri oggettivi certi.
In primo luogo, trattandosi di violazioni accertate senza contestazione immediata, la notifica del relativo verbale deve essere effettuata entro 150 giorni; si verificherà, pertanto, il caso costante di un certo lasso di tempo fra la violazione e la sua contestazione. Il fatto è tutt’altro che trascurabile, poiché è certamente oggettiva la difficoltà di ricostruire con esattezza i propri movimenti a distanza di alcuni mesi. E’ altrettanto fondata l’osservazione che ciò può costituire una lesione certa del diritto di difesa, poiché qualunque testimonianza di terzi, eventualmente acquisita a distanza di diversi mesi, sarebbe giustamente esaminata con molta diffidenza da qualsiasi giudicante. Resta quindi aperta la valutazione della possibilità o meno per il proprietario dell'auto di acquisire certezze in linea di fatto in ordine ad una ipotesi di violazione notificata a distanza di alcuni mesi. Per una ipotesi di passaggio con luce semaforica rossa, infatti, non si vede con quale mezzo di memorizzazione l’individuo possa conservare tracce sicure del proprio transito regolare o meno, in totale assenza di contestazione immediata e di qualunque segnale sonoro in occasione dell’illecito. La giustificazione di non poter fornire i dati del conducente in considerazione del tempo trascorso resta, quindi, tutta da valutare nel caso concreto.
Per talune categorie lavorative esiste un’agenda di appuntamenti e di movimenti che può fornire un riscontro, ma si tratta pur sempre di dati soggettivi ed autogestiti, per i quali non sussiste un obbligo di legge di tenuta e conservazione secondo criteri prestabiliti.
In secondo luogo si può ricorrere all’esame delle caratteristiche del soggetto proprietario, in caso di auto aziendale; una ditta formata da sole due persone (o da marito e moglie con quest’ultima senza patente e casalinga) potrà concretamente offrire nei termini poche possibilità di un giustificato motivo a sostegno della impossibilità di accertare l’effettivo trasgressore al momento della violazione. Una società composta da molti dipendenti e con una organizzazione di movimentazione auto variabile giornalmente potrà invece rivestire maggiore attendibilità. Gli elementi di prova in fatto, tuttavia, dovranno essere forniti dal soggetto che invoca l’esimente, e la loro insufficienza ricadrà a danno esclusivo del proprietario.
Infine si può fare ricorso al genere di attività del proprietario ed all’esame delle persone che possono avere avuto l’uso dell’auto, per motivi personali, familiari o aziendali. Anche quest’ultimo costituisce un esame in fatto e in forza di indizi, positivi o negativi, forniti dal proprietario stesso.
Molto potranno fare le decisioni dei Giudici di merito che, tuttavia, saranno sempre ancorate alle caratteristiche peculiari del caso concreto.
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Si pone un ulteriore quesito, da coordinare con altre norme che disciplinano la materia.
L’art. 126 bis dispone che “L'organo da cui dipende l'agente che ha accertato la violazione che comporta la perdita di punteggio, ne dà notizia, entro trenta giorni dalla definizione della contestazione effettuata, all'anagrafe nazionale degli abilitati alla guida. La contestazione si intende definita quando sia avvenuto il pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria o siano conclusi i procedimenti dei ricorsi amministrativi e giurisdizionali ammessi ovvero siano decorsi i termini per la proposizione dei medesimi. Il predetto termine di trenta giorni decorre dalla conoscenza da parte dell'organo di polizia dell'avvenuto pagamento della sanzione, della scadenza del termine per la proposizione dei ricorsi, ovvero dalla conoscenza dell'esito dei ricorsi medesimi”.
Il provvedimento di decurtazione dei punti, pertanto, consegue alla comunicazione da parte dell’accertatore all’anagrafe, ma detta comunicazione non deve essere eseguita prima che l’accertamento sia divenuto definitivo, nel senso precisato dalla norma. Devono perciò ritenersi privi di effetto alcuno quei provvedimenti di decurtazione inviati contestualmente alla notifica della violazione o nel corso del procedimento di opposizione.
Dice ancora l’art. 126 bis: “La comunicazione deve essere effettuata a carico del conducente quale responsabile della violazione; nel caso di mancata identificazione di questi, il proprietario del veicolo, ovvero altro obbligato in solido ai sensi dell’articolo 196, deve fornire all’organo di polizia che procede, entro sessanta giorni dalla data di notifica del verbale di contestazione, i dati personali e della patente del conducente al momento della commessa violazione. Se il proprietario del veicolo risulta una persona giuridica, il suo legale rappresentante o un suo delegato è tenuto a fornire gli stessi dati, entro lo stesso termine, all'organo di polizia che procede. Il proprietario del veicolo, ovvero altro obbligato in solido ai sensi dell’articolo 196, sia esso persona fisica o giuridica, che omette, senza giustificato e documentato motivo, di fornirli è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 250 a euro 1.000.”.
E’ lecito porsi il quesito del possibile conflitto fra la pendenza del giudizio di opposizione e la richiesta dei dati del conducente, da coordinare con altre norme che disciplinano la materia.
Nel caso di pendenza di ricorso, visto che la norma stessa dispone che la sanzione accessoria della decurtazione possa essere applicata soltanto dopo l’esaurirsi della procedura giudiziaria, si può ritenere che l’organo accertatore debba inoltrare la richiesta di precisazione dei dati del conducente soltanto dopo che la contestazione sia divenuta definitiva, con il rigetto dell’opposizione (nell’ipotesi di accoglimento dell’opposizione, infatti, non vi sarebbe nessuna violazione e quindi non sussisterebbe alcuna necessità di accertamento del responsabile). Il proprietario opponente che si veda rigettare il ricorso, deve avere la possibilità di indicare i dati del conducente, effettivamente responsabile della violazione, anche nel momento in cui diviene definitiva la contestazione. Ciò corrisponde ad una corretta valutazione sistematica del complesso normativo.
Infatti, la stessa Corte Costituzionale, nella motivazione della sentenza 27/2005, pur non affrontando ex professo il tema, ha chiaramente precisato che “in nessun caso il proprietario è tenuto a rivelare i dati personali e della patente del conducente prima della definizione dei procedimenti giurisdizionali o amministrativi per l’annullamento del verbale di contestazione dell’infrazione” dovendosi intendere “definita” la contestazione “quando sia avvenuto il pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria o siano conclusi i procedimenti dei ricorsi amministrativi e giurisdizionali ammessi ovvero siano decorsi i termini per la proposizione dei medesimi”.
Sulla scorta del mutato assetto normativo a seguito della declaratoria di parziale incostituzionalità dell’art.126 bis cds, ed in applicazione del principio richiamato, vanno quindi esaminate le varie fattispecie che possono presentarsi al vaglio giudiziale, nell’ottica dell’individuazione del dies a quo da cui far decorrere il termine previsto per le comunicazioni richieste dall’art.126 bis 2 comma cds.
Ipotesi a): Il proprietario non paga la sanzione nei sessanta giorni dalla notifica del verbale e non effettua alcuna comunicazione.
In tal caso la contestazione deve intendersi “definita”, nel senso evidenziato dalla Consulta, allo scadere del termine previsto per il pagamento della sanzione pecuniaria stabilita per la violazione contestata; il verbale infatti diventa definitivamente esecutivo per mancato pagamento nei sessanta giorni dalla sua notifica. Va tuttavia considerato che il proprietario avrà teoricamente ancora la disponibilità di sessanta giorni di tempo da tale scadenza per adempiere l’obbligo di comunicazione delle generalità e del numero di patente di colui che era effettivamente alla guida del mezzo.
In tal caso il verbale ex art. 180 ottavo comma cds sarà legittimamente emesso, non essendo intervenuta alcuna comunicazione, ma i termini di validità per la sua notifica dovranno farsi decorrere dal centoventesimo giorno (60+60) dalla notifica del verbale di contestazione.
Ipotesi b): Il proprietario non paga la sanzione nei sessanta giorni dalla notifica, ma comunica nello stesso termine le generalità e del numero di patente di colui che era effettivamente alla guida del mezzo.
Si tratta dell’ipotesi “fisiologica”. In tal caso, il proprietario ha adempiuto l’onere informativo su di esso incombente, e quindi non sarà soggetto, se non quale obbligato solidale, né alla sanzione pecuniaria di cui al verbale di contestazione notificatogli, né a quella “derivata” di cui all’art. 180 ottavo comma cds. La P.A, dovrà quindi notificare un altro verbale di contestazione all’effettivo conducente, dalla cui patente verrà decurtato il relativo punteggio, ed il termine per tale notifica decorrerà dal giorno della comunicazione effettuata dal proprietario del veicolo sanzionato.
Ipotesi c): Il proprietario non paga la sanzione nei sessanta giorni dalla notifica del verbale ma effettua la comunicazione dei dati del conducente oltre la detta scadenza.
Sebbene si tratti di ipotesi di difficile applicazione per ovvi motivi, tuttavia il sistema pare ammettere che il proprietario legittimamente comunichi i dati del conducente dopo la scadenza dei termini per il pagamento della sanzione recata dal verbale di contestazione e nei sessanta giorni da detta scadenza.
Da un lato il proprietario sarebbe soggetto al pagamento della sanzione pecuniaria prevista dal verbale di contestazione nella misura non più ridotta, essendo ormai lo stesso divenuto esecutivo definitivamente, mentre il conducente sarebbe soggetto alla sanzione della sola decurtazione del punteggio dalla patente di guida, sempre salva l’eventuale impugnazione da parte di quest’ultimo del verbale successivamente notificatogli (come si vedrà al paragrafo successivo). L’eventuale successiva notifica del verbale di cui all’art.180 ottavo comma cds nei confronti del proprietario per pretesa tardiva comunicazione dei dati richiesti, ossia oltre i sessanta giorni dalla notifica del verbale di contestazione, ma comunque entro i 120 giorni dalla medesima, sarà quindi sicuramente impugnabile per manifesta illegittimità in quanto il relativo termine non poteva dirsi ancora scaduto al momento di detta comunicazione.
Ipotesi d): Il proprietario non paga la sanzione ed impugna nei termini il verbale di contestazione
Anche tale ipotesi ricorre frequentemente. Il proprietario, avendo motivi per opporsi al verbale, lo impugna nei termini di legge radicando un procedimento giurisdizionale in ordine alla legittimità dell’accertamento effettuato. In tale caso la contestazione non potrà considerarsi “definita” sino a che risulterà pendente il procedimento medesimo e quindi sino a che lo stesso non sarà deciso con un provvedimento con autorità di giudicato.
In realtà è facile che il verbale ex art. 180 ottavo comma cds sia notificato al ricorrente mentre ancora pende il giudizio di opposizione sul verbale di contestazione; invero, con le modifiche apportate dalla riforma del processo civile, ora la prima udienza viene fissata a non meno di 90 giorni più 20 per la notifica dal deposito del ricorso, mentre il verbale ex art. 180 ottavo comma cds, considerando il termine dei sessanta giorni dalla notifica del verbale di contestazione, viene notificato entro i 150 giorni dal decorso di tali sessanta giorni e se il procedimento non si definisce alla prima udienza è facile che si verifichi una simile situazione. Orbene, poiché, come detto, il termine dei sessanta giorni per la comunicazione dei dati richiesti dall’art. 126 bis 2 comma cds non può decorrere se non dalla definizione della contestazione, pendendo ancora il procedimento sulla contestazione stessa, l’eventuale opposizione al verbale ex art. 180 ottavo comma cds (nel frattempo notificato) da parte del ricorrente dovrà essere accolta, essendo lo stesso stato emesso illegittimamente.
Nella ipotesi in cui il procedimento di opposizione al verbale di contestazione sia già definito si deve considerare il suo esito.
Così in caso di accoglimento del ricorso, l’accertata illegittimità della contestazione esclude in radice la necessità di accertare l’effettivo responsabile. Infatti, nell’ipotesi in cui, successivamente all’accoglimento del ricorso con conseguente annullamento del verbale impugnato, il ricorrente si veda notificare un verbale ex art. 180 ottavo comma cds, per mancata comunicazione dei dati richiesti, e lo impugni per tale motivo, invocando la sentenza irrevocabile del giudice di pace emessa al riguardo, l’opposizione va senz’altro accolta.
In caso di rigetto del ricorso si deve invece accertare se la relativa sentenza sia stata impugnata o meno. Nel primo caso, pendendo un giudizio di appello avanti il tribunale, la contestazione non si può dire ancora “definita” nel senso divisato e quindi il verbale ex art. 180 ottavo comma cds, eventualmente notificato al ricorrente, dovrà considerarsi illegittimo per gli stessi motivi sopra indicati.
Nell’ipotesi in cui la sentenza del giudice di pace non sia stata impugnata bisognerà accertare se siano o meno decorsi i termini per la sua impugnazione.
In caso negativo, potendo ancora essere proposta impugnazione, la contestazione non si può dire ancora “definita” nel senso divisato e quindi il verbale ex art. 180 ottavo comma cds, eventualmente notificato al ricorrente, dovrà considerarsi illegittimo per gli stessi motivi sopra indicati.
In caso positivo invece, poiché la contestazione si deve intendere definita con il vano decorso del termine per l’impugnazione della sentenza di primo grado, il verbale ex art. 180 ottavo comma cds dovrà essere considerato legittimo solo se sia stato notificato nei 150 giorni successivi al decorso dei sessanta giorni dalla scadenza del termine per impugnare la sentenza di primo grado e quindi da quando è intervenuto il giudicato sulla contestazione.
Ipotesi e): Il proprietario paga la sanzione nei sessanta giorni dalla notifica del verbale e non effettua alcuna comunicazione.
In tale ipotesi, che ricorre frequentemente, il proprietario, con il pagamento, riconosce implicitamente di essere anche conducente, ma ritiene di avere adempiuto compiutamente il proprio obbligo, il più delle volte perché non presta particolare attenzione a quanto indicato nel verbale in tema di conseguenze dell’omessa comunicazione ex art. 126 bis secondo comma cds.
Una volta ricevuta la notifica del verbale di cui all’art. 180 ottavo comma cds il proprietario solitamente interpone opposizione e sostiene la propria buona fede, evidenziata comunque dalla volontà solutoria in ordine alla sanzione pecuniaria, ovvero dichiara di non aver effettuato alcuna comunicazione credendo di subire la decurtazione dei punti personalmente ed anzi invocandola in sede di impugnazione.
Si ritiene che in tal caso l’impugnazione sia da rigettare sotto entrambi i profili. Quanto al primo appare evidente l’applicazione del noto brocardo ignorantia legis non excusat, né può invocarsi la buona fede laddove viene evidenziato chiaramente l’obbligo di comunicazione imposto al proprietario dalla norma di legge e la relativa sanzione in caso di inadempimento (che figura in ogni verbale di contestazione differito che comporti la decurtazione di punti dalla patente di guida). Quanto al secondo, a seguito della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 126 bis secondo comma cds, la decurtazione dei punti dalla patente di guida del proprietario del veicolo può conseguire solo ad una espressa comunicazione dei dati richiesti del conducente (mentre nel previgente regime tale comunicazione serviva ad evitare la decurtazione dei punti del proprietario del mezzo) con la conseguenza che il proprietario che vuole evitare la sanzione pecuniaria prevista dall’art.180 ottavo comma cds, preferendo la decurtazione dei punti dalla propria patente di guida, non può legittimamente ritenere che essa consegua automaticamente al pagamento tout court della sanzione prevista dal verbale, ma deve comunicare i propri dati entro il termine, come visto, dei sessanta giorni dal momento dell’avvenuto pagamento di tale sanzione, perché è con tale pagamento che la contestazione è stata “definita”, e non certamente in sede di impugnazione del verbale ex art.180 ottavo comma cds, in modo oltre che irrituale anche intempestivo.
In definitiva si può affermare che:
l’applicazione della sanzione accessoria della decurtazione dei punti è l’effetto della definitività dell’accertamento;
detta definitività matura a seguito del decorso del termine utile al ricorso, senza che questo venga proposto, o dalla sentenza che rigetta il ricorso ed in assenza di impugnazione;
prima della definitività, ogni provvedimento di decurtazione non ha effetti giuridici ed appare perciò illegittimo;
il proprietario ha l’obbligo di comunicazione dei dati ma potrà adempiere a detto obbligo sia nel termine di sessanta giorni dalla richiesta, in qualunque tempo inviata, sia entro il termine di sessanta giorni dalla conoscenza del rigetto del suo ricorso;
non sembra legittima l’applicazione della sanzione pecuniaria di cui all’art. 126 bis CdS fino a quando pende l’opposizione che, se accolta, annullerebbe il fatto illecito che forma il presupposto per l’applicazione di qualsiasi sanzione, principale o accessoria.
il proprietario che comunichi i dati del conducente entro sessanta giorni dalla conoscenza della sentenza di rigetto, ha diritto che si proceda alla decurtazione dei punti a carico del responsabile e non all’applicazione a proprio carico della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 126 bis comma CdS.
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Aspetti giuridico-processuali
CLASSIFICAZIONE DELL’ILLECITO
Trattasi di illecito omissivo. L’istituto è noto al diritto penale, all’art. 40 – 2° comma C.P., ove si specifica che non impedire un evento che si ha l’obbligo di prevenire, equivale a cagionarlo. In realtà, nel caso de quo, si tratta più semplicemente di un inadempimento ad un obbligo di legge, che costituisce comunque una violazione. L’interesse pubblico tutelato, tuttavia, è quello della individuazione del reale trasgressore, al quale applicare la sanzione del tutto personale della decurtazione dei punti della patente. In tal senso l’obbligo de quo è stato anche classificato quale obbligo di collaborazione del cittadino con la Pubblica Amministrazione. La condotta illecita, in ogni caso, è essenzialmente un “non fare” in presenza di un obbligo di “fare”.
L’ipotesi omissiva ha sempre creato perplessità di concreta applicazione; infatti è difficile comprendere per quale meccanismo giuridico si debba punire un soggetto che non fa nulla.
In realtà la punizione del “non fare” è direttamente collegata all’obbligo di “fare”; ciò è facilmente comprensibile in tutte quelle occasioni in cui è sancito, ad esempio, l’obbligo di pagare una somma entro un certo termine e tale pagamento non viene effettuato. Oppure si pensi all’obbligo di chiedere ed ottenere preventivamente una autorizzazione all’apertura di un esercizio commerciale; l’omissione della richiesta (cioè il non aver fatto) conduce alla sanzione prevista per la violazione dell’obbligo di fare (cioè di preventivamente richiedere).
Nel caso che ci occupa, il legislatore ha introdotto il nuovo istituto della decurtazione dei punti dalla patente del conducente (in tal senso la Corte costituzionale con la nota sentenza 27/2005 ha corretto la sciagurata idea del legislatore del 2003 di decurtare i punti del proprietario per l’illecito di una persona diversa). Una volta preso atto che il legislatore, nella sua discrezionalità, ha voluto puntare su detta misura quale ipotesi di correzione dei comportamenti illeciti sulla strada, non si può fare altro che adeguarsi al detto dura lex, sed lex, anche quando si tratta di orribile lex (l’illusione di risolvere tutto in questo modo è dimostrata dal rilevamento statistico del permanere delle “stragi del sabato sera” e dell’alto numero di morti e feriti gravi).
La struttura delle norme di questo tipo è di tipo oggettivo, nel senso che non permette e non richiede l’indagine sulla negligenza o la volontarietà della omissione ma prende atto, puramente e semplicemente, della inosservanza dell’obbligo. Al Giudice non è permessa l’indagine sull’elemento soggettivo della colpevolezza ma soltanto, come si vedrà, sulla sussistenza o meno della esimente.
Va infine respinta l’ipotesi che il proprietario venga sanzionato due volte per la stessa infrazione, quella originaria dalla quale nasce l’obbligo della indicazione del conducente e quella ex art. 126 bis per aver fornito una indicazione insufficiente alla identificazione del conducente. Anche in questo caso occorre osservare e prender atto che, in linea di diritto, le violazioni sono distinte e separate, con una specifica previsione normativa e un regime sanzionatorio diverso; inoltre la violazione originaria non dà origine, necessariamente e immancabilmente, all’applicazione della sanzione ex art. 126 bis. Dunque l’argomentazione è priva di pregio giuridico e non è valutabile neppure sotto il profilo teorico della iniquità.
SCOPO FINALE DELLA NORMA
Come si è già visto, la norma vuole raggiungere lo scopo essenziale, e di squisito interesse pubblico, della punizione di colui che con il suo comportamento produce un rischio concreto nella circolazione. La prospettiva di essere costretti a non usare l’auto a causa di una restrizione sulla patente, è accompagnata da un forte potere deterrente. Non è così distante dalla realtà del nostro paese sintetizzare ciò in uno slogan, preso a prestito dalla pubblicità commerciale: “toglietemi tutto ma non la mia patente”.
In tutta la riforma del 2003 l’unica prospettiva veramente drammatica per l’utente della strada è quella di incorrere nelle misure sulla patente (inclusa la sospensione temporanea prevista per i casi di coinvolgimento in sinistri stradali nei quali appare evidente una certa responsabilità, nonché per la guida in stato di ebbrezza).
Una volta constatato che lo scopo del legislatore (legittimamente esercitato anche secondo la Corte costituzionale) è quello di punire direttamente l’autore di trasgressioni con una precisa connotazione di illeciti di pericolo, è logico accettare l’idea che il legislatore abbia voluto scoraggiare i tentativi di eludere l’applicazione concreta della norma. Già di per sé appare palese che tutti quei soggetti che possono sostenere il costo della sanzione, in alternativa alla decurtazione e salvaguardando l’integrità della patente, fanno affidamento su tale possibilità, attendendo la notifica del verbale ex art. 126 bis e scaricandone il costo nei bilanci aziendali. In presenza di tale diffusissimo costume, si può anche ritenere ragionevole una interpretazione restrittiva della esimente di non poter indicare dati utili alla identificazione del conducente (tale orientamento sembra essere assunto dalla recente sentenza 12.06.2007, n. 13748 vedi nota 21).
MOMENTO DI CONSUMAZIONE DELL’ILLECITO
L’illecito omissivo, allorchè la condotta dovuta debba essere adempiuta entro un termine di tempo prestabilito, si consuma allo spirare del termine utile, senza possibilità di recupero.
“In tema di fatti omissivi connessi alla mancata attuazione di una determinata condotta entro un termine prefissato, al fine di verificare se si tratti di reato istantaneo o di reato permanente è necessario considerare se, decorso inutilmente il termine penalmente sanzionato, la condotta prescritta non possa essere più tenuta utilmente, perché l'inosservanza del dovere ha cagionato in modo irreparabile e definitivo la lesione dell'interesse protetto dalla legge; ovvero se l'azione prescritta possa essere ancora utilmente tenuta, stante la persistenza dell'interesse giuridico sotteso alla norma penale incriminatrice”. (Cassaz. penale, sez. IV, 3 giugno 1995)
“Per aversi reato omissivo istantaneo non basta che sia prefissato un termine per l'adempimento del dovere sanzionato penalmente ma è necessario che si tratti di termine oltre il quale l'azione prescritta non può essere utilmente compiuta, dato che la inosservanza del dovere ha prodotto in modo definitivo la lesione dell'interesse protetto dalla norma incriminatrice” (Cassaz. penale, sez. III, 20 maggio 1985).
La individuazione del momento di consumazione dell’illecito istantaneo e non permanente determina la competenza.
Il tempo della consumazione: è lo spirare del termine previsto per la comunicazione
Il luogo della consumazione: l’ultimo luogo, prima dello spirare del termine, nel quale avrebbe potuto essere adempiuto l’obbligo.
TIPOLOGIA DELLA CONDOTTA DOVUTA
Si tratta di una comunicazione scritta, da inoltrare ad un destinatario precisato. Si deve quindi presumere che il mezzo della comunicazione tramite servizio postale sia la modalità più comune (anche se non l’unica).
Il principio generale (ormai codificato dalle nuove norme del Codice di procedura civile a seguito della sentenza della Corte Cost. 26.11.2002, n. 477 e successive conferme) sancisce l’adempimento agli obblighi di notifica o comunicazione nel momento della consegna all’ufficiale postale o ufficio delle notifiche. Gli effetti per il notificante maturano dal momento dell’inoltro, restando estranei al mittente gli eventuali effetti negativi delle operazioni materiali di trasporto e consegna della comunicazione
La comunicazione può essere inviata da qualunque luogo sul territorio nazionale ma tale riflessione non porta a conclusioni significative. Poiché si discute della possibilità astratta della comunicazione, e quindi, dello spirare della possibilità concreta di inviare la stessa, si deve presumere che l’ultimo momento utile a tale invio si consumi nel luogo principale degli affari e degli interessi dell’obbligato, cioè la sua residenza.
PRIMA CONCLUSIONE
L’illecito si consuma nel momento e nel luogo in cui il trasgressore lascia spirare presso la sua residenza il termine utile per spedire la comunicazione, quindi sessanta giorni.
VERIFICA DELLE NORME DI ORDINE PROCESSUALE
NORME DEL C.P.C.
L’eventuale opposizione avverso la contestazione ha quale convenuto la Pubblica Amministrazione.
L’art. 25 c.p.c. indica il Giudice del luogo ove è sorta o deve eseguirsi l’obbligazione. In relazione all’art. 126 bis CdS, l’obbligo sorge al momento e nel luogo ove viene ricevuto l’invito, cioè la residenza dell’obbligato.
Il luogo ove deve essere eseguita l’obbligazione con la comunicazione, per quanto sopra già esposto, coincide con l’ultimo momento utile ad eseguire l’atto che comporta l’estinzione dell’obbligo: la residenza dell’obbligato resta il luogo più probabile.
ESIMENTE DELLA IMPOSSIBILITA’ DI COMUNICARE I DATI DEL CONDUCENTE
Dinanzi all’obbligo di legge ed alla sua violazione, anche nel caso di comunicazione positiva e tempestiva ma non idonea alla identificazione del conducente, compete al proprietario esporre gli elementi costitutivi della esimente prevista dalla legge.
Anche in questo caso, dura lex sed lex. Occorre un giustificato e documentato motivo che impedisca l’adempimento dell’obbligo previsto dalla legge. La lettera della norma è tale e non si può fare a meno di prenderne atto; anche il Giudice di Pace si trova nella disagevole condizione di dover considerare tanti casi concreti, tutti diversi fra di loro, nei quali dover valutare se sussistano motivi giustificati, e, in secondo luogo, se detti motivi, già ritenuti giustificati in concreto, siano altresì documentati. Nessuno potrà permettersi di chiedere al Giudice di ignorare il dettato esplicito della norma.
L’obiezione più frequente può essere sintetizzata nell’espressione “ad impossibilia nemo tenetur”.
Più esattamente si obietta che non sussiste alcun obbligo giuridico per il proprietario di annotare a chi egli affida la propria auto in un determinato giorno; in particolare si oppone l’assenza di tale obbligo allorchè si controverta su auto aziendali, ma l’argomento viene opposto anche nelle situazioni di gruppi familiari con diversi componenti ed un’unica auto.
In genere il ricorrente si limita ad affermare di non poter ricordare il nome del conducente in considerazione del tempo trascorso, nonché dell’assenza di un obbligo a suo carico o dell’uso promiscuo della vettura da parte di più persone (inclusi i nonni ultraottantenni, privi di patente e neppure conviventi, spesso invalidi con o senza contrassegno, vicini di casa ad oltre 100 Km. di distanza o destinatari di non meglio identificate adozioni a distanza, particolarmente fiorenti in tempi recenti). La fantasia creativa di giustificazioni asseritamente meritevoli di accoglimento dovrebbe essere ospitata in una raccolta letteraria.
E’ più serio esaminare, invece, gli argomenti ipoteticamente a sostegno della sussistenza dell’obbligo del proprietario, e ciò proprio in diretto riferimento alle giustificazioni esposte dalla predetta sentenza ed alle osservazioni già formulate da alcuni critici.
VARIE ARGOMENTAZIONI A SOSTEGNO DELL’OBBLIGO DEL PROPRIETARIO
Anche la recente sentenza Cassaz. 12.06.2007, n. 13748 afferma la sussistenza per principio generale di un obbligo di diligenza a carico del proprietario nell’affidare ad un terzo la guida del proprio veicolo, da cui discenderebbe, quale ragionevole conseguenza, la conoscenza della identità dell’affidatario. In altre parole l’introduzione legislativa dell’obbligo di comunicazione avrebbe prodotto l’allargamento del concetto di diligenza all’obbligo di collaborazione con la Pubblica amministrazione. Sinceramente, così giustificato, il richiamo alla diligenza sembra debole. Può essere più attendibile sottolineare l’interesse del proprietario all’esercizio della diligenza nell’affidamento dell’auto, sia per le conseguenze spiacevoli sul piano patrimoniale, sia per l’elevato costo raggiunto dai veicoli, sia per quella precisa affezione dell’uomo alla propria auto (dato da considerarsi notorio, visti i delitti consumati in occasione di “attentati” contro le auto, le vendette consumate fra coniugi separati e il valore squisitamente simbolico attribuito a certe categorie di auto o alla personalizzazione esasperata del proprio veicolo).
Con altro argomento si invoca la coobbligazione solidale del proprietario negli obblighi derivanti dai fatti della circolazione stradale: è facile obiettare, peraltro, che ciò concerne le conseguenti patrimoniali del fatto illecito, ma non quelle di natura personale, quali la responsabilità penale e la decurtazione dei punti. Si aggiunge, dall’altra parte, che la comunicazione dei dati del conducente non comporta assunzione di responsabilità alcuna, al di fuori delle dichiarazioni mendaci, e che quindi al proprietario non costa nulla indicare chi fosse alla guida. Vi è da precisare, a tale riguardo, che non basta l’indicazione del conducente per produrre automaticamente la decurtazione dei punti; qualora il conducente ammetta la propria responsabilità sottoscrivendo il modello e inviando la copia del proprio documento di identità, si potrà applicare direttamente la sanzione specifica. Diversamente, al conducente, indicato come tale dal proprietario, andrà contestata l’infrazione con atto allo stesso notificato ed egli avrà il diritto di proporre ricorso diretto a smentire la circostanza di fatto. Non è sostenibile l’ipotesi di una delazione privata, priva di riscontro nel contraddittorio con l’interessato, che sia idonea all’applicazione di una sanzione di natura personale.
Ancora, si richiamano gli obblighi del custode. Tentando di applicare i principi di diritto al caso che ci occupa (nel quale il danneggiato sarebbe la Pubblica amministrazione per il fatto di non poter decurtare i punti a nessuno), esaminiamo quanto afferma la Cassazione con Sentenza n. 27168 del 19/12/2006:
“In tema di danno cagionato da cose in custodia è indispensabile, per l'affermazione di responsabilità del custode, che sia accertata la sussistenza di un nesso di causalità tra la cosa ed il danno patito dal terzo, dovendo, a tal fine, ricorrere la duplice condizione che il fatto costituisca un antecedente necessario dell'evento, nel senso che quest'ultimo rientri tra le conseguenze normali ed ordinarie di esso, e che l'antecedente medesimo non sia poi neutralizzato, sul piano causale, dalla sopravvenienza di circostanze da sole idonee a determinare l'evento. Ne consegue che anche nell'ipotesi in cui il custode non abbia attuato, sulla cosa nella sua disponibilità, tutte le precauzioni astrattamente idonee ad evitarne la responsabilità, la causa efficiente sopravvenuta che del caso fortuito presenti i requisiti propri dell'eccezionalità e dell'oggettiva imprevedibilità e che da sola sia idonea a provocare l'evento, interrompe il nesso eziologico e produce gli effetti liberatori, pur quando essa si concreti nel fatto del terzo o dello stesso danneggiato”.
Ed anche con Sentenza n. 25243 del 29/11/2006:
“Ai sensi dell'art. 2051 cod. civ. la responsabilità per danni ha natura oggettiva, in quanto si fonda sul mero rapporto di custodia, cioè sulla relazione intercorrente fra la cosa dannosa e colui il quale ha l'effettivo potere su di essa (come il proprietario, il possessore o anche il detentore) e non sulla presunzione di colpa, restando estraneo alla fattispecie il comportamento tenuto dal custode; a tal fine, occorre, da un lato, che il danno sia prodotto nell'ambito del dinamismo connaturale del bene o, per l'insorgenza in esso di un processo dannoso, ancorchè provocato da elementi esterni, e, dall'altro, che la cosa, pur combinandosi con l'elemento esterno costituisca la causa o la concausa del danno; pertanto, l'attore deve offrire la prova del nesso causale fra la cosa in custodia e l'evento lesivo nonchè dell'esistenza di un rapporto di custodia relativamente alla cosa, mentre il convenuto deve dimostrare l'esistenza di un fattore estraneo che, per il carattere dell'imprevedibilità e dell'eccezionalità, sia idoneo ad interrompere il nesso di causalità, cioè il caso fortuito, in presenza del quale è esclusa la responsabilità del custode”.
Si veda infine la Sentenza n. 21244 del 29/09/2006:
“In tema di responsabilità da custodia, facendo eccezione alla regola generale di cui al combinato disposto degli artt. 2043 e 2697 cod. civ., l'art. 2051 cod. civ. determina un'ipotesi caratterizzata da un criterio di inversione dell'onere della prova, ponendo a carico del custode la possibilità di liberarsi della presunzione di responsabilità a suo carico mediante la prova liberatoria del fortuito, risultando a tale stregua agevolata la posizione del danneggiato, rimanendo sul custode il rischio del fatto ignoto”.
Sembra riconfermato l’obbligo del ricorrente di fornire la prova del fatto liberatorio, cioè della esimente già analizzata; il fatto ignoto, cioè la impossibilità di ricostruire l’affidamento a terzi, resta a carico del custode. Non può affermarsi la imprevedibilità o la eccezionalità della guida affidata a terzi in quanto ciò consegue ad un fatto volontario del proprietario e non alla diversa ipotesi della circolazione contro la sua volontà.—
Il profilo degli obblighi del custode appare, quindi, totalmente sfavorevole alle giustificazioni addotte dal proprietario a propria scusante di non poter fornire i dati del conducente.
Altri si richiamano all’istituto dell’incauto affidamento, per sostenere che il proprietario ha un interesse proprio, prima ancora che un obbligo giuridico, a sapere sempre in quali mani si trovi il proprio veicolo. Anche in tal caso esaminiamo qualche massima, non senza rimarcare che si tratta di pronunce di vari anni or sono.
Sez. 4, Sentenza n. 482 del 16/12/1994
“Anche dopo che, con il nuovo codice della strada, introdotto con il D.Lgs. 30 aprile 1992 n. 285, l'incauto affidamento del veicolo a persona non munita di patente è divenuto illecito amministrativo, e perciò depenalizzato (art. 116 c. 12 del codice della strada vigente), è possibile il concorso nel reato di guida senza patente, ora previsto dall'art. 116 c. 13, quando l'affidante agisca con dolo, cioè sia consapevole che l'affidatario è sprovvisto di patente e il suo comportamento sia riconducibile ai parametri generali previsti dall'ordinamento in tema di concorso secondo i quali il concorso è configurabile non solo quando vi sia partecipazione all'esecuzione materiale del reato, ma anche quando l'agente abbia incitato o rafforzato l'altrui volontà, o fornito i mezzi per commetterlo”.
Sez. 4, Sentenza n. 10030 del 16/06/1992
“La contravvenzione di cui all'art. 80 comma dodicesimo cod. strad. può avere natura sia dolosa che colposa e pertanto essa è configurabile a carico dell'affidante sia che questi sappia che l'affidatario non abbia conseguito la patente di guida e sia che, per colpevole negligenza, abbia omesso il relativo accertamento”.
L’argomento non fornisce dati significativi, al di fuori della ulteriore sottolineatura di un generale obbligo di diligenza nell’affidamento a terzi di un bene di particolarissima natura, qual è l’automobile, anche in considerazione della potenzialità nociva dello strumento, se non correttamente condotto.
In definitiva, la prova della esimente di un motivo giustificato e documentato appare “diabolica probatio” ma niente affatto impossibile; soprattutto non appare niente affatto impossibile conoscere l’identità del conducente al momento del fatto. Fino a quando la norma resterà con l’attuale configurazione, non possono trovare accoglimento le generiche giustificazioni attualmente addotte per non indicare il nome del conducente.
COMPETENZA PER TERRITORIO A GIUDICARE DEL RICORSO AMMINISTRATIVO
Anche se viene trattato per ultimo, tale argomento non appare per nulla indifferente; per la verità l’eccezione di incompetenza per territorio, se proposta, dovrà essere esaminata e risolta prima di ogni altra ragione.
E’ doveroso ricordare che la Cassazione ha deciso la questione con ordinanza n. 17580 del 09/08/2007 come segue:
“È territorialmente competente a decidere l'opposizione avverso il verbale di contestazione della violazione dell'articolo 126 bis, comma secondo, cod. strada - sanzionante il proprietario del veicolo che senza giustificato motivo non comunichi nel termine previsto le generalità del conducente al momento della commessa infrazione - il giudice del luogo dove ha sede l'organo di polizia procedente, giacchè l'infrazione si consuma nel luogo in cui avrebbe dovuto pervenire la comunicazione che è stata omessa”. (Nella specie il Giudice di Pace di Viareggio, con ordinanza del 9 novembre 2006, aveva sollevato di ufficio regolamento di competenza avverso il decreto dell'8 maggio 2006 del Giudice di Pace di Lucca che lo aveva indicato competente e la S.C. ha dichiarato la competenza del Giudice di Pace di Lucca, dove aveva sede la Sezione di Polizia stradale procedente).
Dalla lettura dell’intera ordinanza, peraltro, si desume che la Cassazione decide per la competenza esclusivamente in base al luogo ove deve pervenire la comunicazione trascurando i recenti ed univoci orientamenti della Corte Costituzionale in tema di adempimento degli obblighi del mittente rispetto a quelli del destinatario. In tutti i casi in cui sussista un obbligo a comunicare entro un certo termine una propria volontà (ad esempio in materia di partecipazione a concorsi) per il mittente vale la data di affidamento all’organo deputato al recapito (Posta, ufficiale giudiziario o altro). Designare la competenza in base alla sede del soggetto che deve ricevere dovrebbe attrarre, quale conseguenza logica, anche la necessità che la comunicazione pervenga entro il termine di sessanta giorni; ciò contravviene a quanto sancito dalla Corte costituzionale.
VERIFICA DELLE NORME DI ORDINE PROCESSUALE
NORME DEL C.P.C.
L’eventuale opposizione avverso la contestazione ha quale convenuto la Pubblica Amministrazione.
L’art. 25 c.p.c. indica il Giudice del luogo ove è sorta o deve eseguirsi l’obbligazione. In relazione all’art. 126 bis CdS, l’obbligo sorge al momento e nel luogo ove viene ricevuto l’invito, cioè la residenza dell’obbligato.
Il luogo ove deve essere eseguita l’obbligazione con la comunicazione, per quanto sopra già esposto, coincide con l’ultimo momento utile ad eseguire l’atto che comporta l’estinzione dell’obbligo: la residenza dell’obbligato resta il luogo più probabile.
LEGGE 689/81
L’art. 22 determina la competenza per territorio del Giudice ove è commessa la violazione.
Senza ripetersi, la violazione dell’invito di cui all’art. 126 bis CdS è commessa nel luogo di residenza del trasgressore (restando irrilevante la violazione originaria della norma di comportamento che ha dato origine all’invito a comunicare i dati del conducente).
La Cassazione ha affermato più volte che, per tutto quanto non previsto dalla legge 689/81, devono applicarsi le norme processuali del giudizio ordinario civile.
NORME DEL C.P.P.
La legge 689/81 deriva dalla depenalizzazione di illeciti penali; l’impostazione sistematica di tale normativa è di natura penale e l’illecito omissivo è tipico del diritto penale. E’ d’obbligo, tuttavia, prendere atto che la detta legge non disciplina reati ma illeciti amministrativi. Non è quindi conferente il richiamo alle norme che regolano il processo penale. In via residuale, peraltro, anche l’esame delle norme che regolano la competenza per territorio in materia penale, di cui agli artt. 8 e 9 cpp, non portano a concludere per luoghi diversi dalla residenza dell’imputato.
La suriportata ordinanza della Cassazione, tuttavia, non risulta che abbia considerato e valutato tutte le suesposte considerazioni.
In merito si è espresso il Ministero dell’Interno, con circolare PROT. N. M/2413/28, in risposta a segnalazioni da parte di alcune Prefetture, circa le incertezze e le difficoltà in ordine alla individuazione del Prefetto e/o del Giudice di Pace territorialmente competenti a decidere i ricorsi proposti avverso i sommari processi verbali di contestazione delle violazioni dell’art. 180, comma 8, CdS, violazione richiamata espressamente dall’art. 126 bis, comma 2 dello stesso Codice, ritenendo che:
- al fine di fondere la competenza del Prefetto e/o Giudice di Pace cui proporre ricorso avverso la condotta omissiva tenuta successivamente alla violazione contestata, il luogo della commissione di quest’ultima non possa assumere alcun rilievo e che debba, piuttosto, farsi riferimento al luogo di residenza dell’interessato.
Sulla sentenza a SS.UU. della Cassazione 17355/2009
La Suprema Corte interviene in modo energico sul tema del valore da attribuire al verbale redatto dal P.U. e sul regime della prova contraria; il contributo è destinato a provocare molti tormenti giudiziari ma è stato esplicitamente prodotto dalle sezioni unite con la evidente finalità di impedire un possibile contrasto giurisprudenziale, in parte già evidenziatosi.
In una prima parte della pronuncia ci si sofferma sui contenuti del verbale, indicando quali di essi possono dirsi assistiti dal valore di pubblica fede, a conferma di quanto già deciso con sentenza 12545/1992 delle stesse Sezioni unite.
Premesso che il verbale è a tutti gli effetti “atto pubblico”, in sintesi sono certamente da considerare al rango di piena prova:
la provenienza del documento;
le dichiarazioni delle parti;
i fatti avvenuti in presenza del P.U.;
gli atti dallo stesso compiuti.
Il valore di atto pubblico non lede il diritto di difesa in quanto resta sempre esperibile il procedimento di querela di falso, nel quale il diritto alla prova è pieno.
Restano esclusi dal valore di piena prova:
le valutazioni del P.U.;
gli apprezzamenti personali, anche se relativi a fatti accaduti in sua presenza.
Nel corpo della decisione si esprime a chiare lettere la necessità sistematica di ritornare ad un regime di assoluta indiscutibilità di parte del contenuto dell’atto pubblico, attribuendo alla figura del P.U. il ruolo di fondamentale affidamento per la stabilità della convivenza civile.
Si precisa, infatti, che occorre non dare seguito all’orientamento che permetteva di introdurre nel procedimento di opposizione a sanzione amministrativa il dubbio in ordine alla corretta percezione statica o dinamica del P.U. a causa della “lesione che esso ha comportato, e può ulteriormente comportare, al superiore interesse della certezza giuridica dell’attività svolta dai pubblici ufficiali ed alle esigenze di garanzia del buon andamento della P.A. alla cui tutela è funzionale l’efficacia di piena prova attribuita all’atto pubblico ex art. 2700 C.C.”
A tale scopo sarebbero preordinate le norme che “tipizzano” il verbale , obbligando il P.U. a esporre in forma sommaria il fatto e ad indicare gli estremi precisi e dettagliati della violazione.
Va altresì preso atto che la stessa Suprema Corte conferma l’obbligo per il P.U. di descrivere “le particolari condizioni soggettive ed oggettive dell’accertamento, dando conto nell’atto pubblico non soltanto della sua presenza ai fatti attestati, ma anche delle ragioni per le quali detta presenza ne ha consentito l’attestazione”.
Si deve peraltro prendere atto che la figura del P.U. non è più riconducibile ad una persona la cui qualifica è predeterminata da un incarico formalmente individuabile come tale.
La qualità di pubblico ufficiale deriva dalla tipologia delle prestazioni esercitate, ossia dallo svolgimento in concreto di una funzione pubblica legislativa, giurisdizionale o amministrativa.
E' pubblico ufficiale il medico che partecipa alla formazione della volontà della Pubblica Amministrazione o alle dichiarazioni di volontà, scienza o verità della stessa (per esempio, il medico incaricato del controllo della sussistenza di una malattia; il medico convenzionato che svolge l'attività di accertamento a carico dell'assistito in vista di una dichiarazione certificativa).
La qualità, quindi, consegue all’esercizio della funzione e non all’investitura ufficiale con atto formale e qualifica predeterminata dalla legge.
Si verifica anche che la stessa persona può essere PU la mattina e libero professionista nel pomeriggio: si pensi al medico ospedaliero con rapporto extra moenia che nelle ore del mattino svolge le sue funzioni in reparto o al Pronto soccorso e nel pomeriggio effettua prestazioni specialistiche nel suo studio privato.
Ciò comporta, ad esempio in materia di obbligo al rapporto ed al referto in merito al reato di immigrazione clandestina, un differente regime a seconda del momento in cui si viene a trovare il soggetto.
La decisione in esame prosegue tracciando una rigida ripartizione del regime della prova.
Nell’ambito del giudizio di opposizione a sanzione amministrativa, disciplinato dalla legge 689/81, l’ammissibilità della contestazione va condotta in relazione a circostanze che esulano dall’accertamento, quali:
L’identificazione dell’autore
La sua capacità
La sussistenza dell’elemento soggettivo
Le cause di esclusione della responsabilità
L’eventuale contraddittorietà fra elementi contenuti nel verbale.
Al particolare giudizio di querela di falso, e senza preclusione di alcun mezzo di prova, andranno riservate tutte le contestazioni relative a:
mancata particolareggiata esposizione delle circostanze dell’accertamento
non idoneità delle stesse a conferire certezza ai fatti
realtà degli accadimenti
loro effettivo svolgersi
correttezza dell’operato del P.U..
La decisione in esame, tuttavia, non appare pienamente idonea a risolvere ogni possibile dubbio di applicazione al caso concreto. La lettura dei verbali, nella loro attuale ed abituale redazione, non sembra soddisfare l’esigenza della puntuale e circostanziata relazione in ordine a “le particolari condizioni soggettive ed oggettive dell’accertamento” e “le ragioni per le quali detta presenza ne ha consentito l’attestazione”.
Riflettiamo anche sul fatto che in tema di sanzioni amministrative per violazioni al Codice della Strada il ricorrente (nella stragrande maggioranza dei casi) sta in giudizio da solo, senza assistenza di avvocato, e sarà difficile che egli possa comprendere la differenza fra fede privilegiata del verbale e affermazioni soggettive del PU; altrettanto potrà dirsi della differenza fra i procedimenti di opposizione ex art. 22 della legge 689/81 e la querela di falso dinanzi al Tribunale.
Sarà anche difficile contrastare la radicata convinzione che i Comuni e lo Stato pratichino comunemente la strategia della contravvenzione stradale per incrementare le entrate.
Anche la vecchia obiezione: “ma è la parola mia contro la sua” (riferita quest’ultima alla parola del vigile) non mancherà di essere opposta con irritazione ed attribuendo al Giudice una abituale complicità con la Polizia Locale o stradale (con buona pace del principio della imparzialità e indipendenza dell’autorità giudiziaria da quella amministrativa).
La menzione della totale libertà di prova nel giudizio di querela di falso non è di per sé satisfattiva del diritto alla difesa, a causa nella necessaria assistenza di avvocato e della competenza del Tribunale (con i tempi e i costi ormai tristemente noti). Tenendo conto altresì della condizione abituale del conducente che viaggia da solo in vettura, resta difficile immaginare di quale ampiezza di prova egli possa effettivamente disporre.
Se, da un lato, appare giusto il rigore e il recupero di un regime di certezza da attribuire all’operato del P.U., dall’altro lato non è così sicuro che la ripartizione così drastica del regime della prova non costituisca lesione concreta della possibilità di difendersi.
E il diritto di difesa è diritto costituzionalmente garantito, che non va osservato nella sua astrattezza ma nella sua effettiva praticabilità.
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1 In senso conforme anche Cassazione civile , sez. I, 25 agosto 2004, n. 16855.
2 Art. 384.
Casi di impossibilità della contestazione immediata.
1. I casi di materiale impossibilità della contestazione immediata prevista dall'articolo 201, comma 1, del codice, sono, a titolo esemplificativo, i seguenti:
a) impossibilità di raggiungere un veicolo lanciato ad eccessiva velocità;
b) attraversamento di un incrocio con il semaforo indicante la luce rossa;
c) sorpasso in curva;
d) accertamento di una violazione da parte di un funzionario o di un agente a bordo di un mezzo di pubblico trasporto;
e) accertamento della violazione per mezzo di appositi apparecchi di rilevamento che consentono la determinazione dell'illecito in tempo successivo ovvero dopo che il veicolo oggetto del rilievo sia già a distanza dal posto di accertamento o comunque nella impossibilità di essere fermato in tempo utile o nei modi regolamentari;
f) accertamento della violazione in assenza del trasgressore e del proprietario del veicolo.
3 “Legittimato passivo nel giudizio di opposizione ad ordinanza-ingiunzione emanata ai sensi della l. 24 novembre 1981 n. 689, è - anche in caso di eventuale responsabilità sanzionatoria con vincolo di solidarietà - esclusivamente il destinatario dell'ingiunzione al quale viene addebitata la violazione amministrativa, in quanto tale giudizio, sebbene abbia ad oggetto un rapporto giuridico avente fonte in un'obbligazione di tipo sanzionatorio, è formalmente strutturato quale impugnazione di un atto amministrativo, sicché non è consentita in esso la partecipazione di soggetti diversi dall'amministrazione ingiungente e dall'ingiunto, trovando la legittimazione a ricorrere fondamento nell'esistenza di un interesse giuridico alla rimozione di un atto del quale il ricorrente sia destinatario, mentre il fatto di essere esposto ad una eventuale azione di regresso integra un semplice interesse di fatto. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di merito con la quale era stata dichiarata l'improcedibilità del ricorso per difetto di legittimazione attiva dell'opponente, comodatario del veicolo in relazione al quale era stata accertata la violazione, ed obbligato contrattualmente nei confronti della proprietaria a pagare le eventuali sanzioni amministrative attinenti alla circolazione del veicolo stesso)”; Cass. civ. 11 gennaio 2007, n. 325 – conforme Cass. civ. 19.06.2006 n. 14098.
4 In tema di violazioni al codice della strada, atteso che il cosiddetto pagamento in misura ridotta, secondo la costruzione normativa di cui all'art. 202 cod. str., non influenza l'applicazione delle eventuali sanzioni accessorie, l'avvenuto pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria non preclude il ricorso al prefetto o l'opposizione al giudice ordinario rispetto alle sanzioni accessorie, ma comporta soltanto un'incompatibilità (oltre che un'implicita rinunzia) a far valere qualsiasi contestazione relativa sia alla sanzione pecuniaria irrogata sia alla violazione contestata, che della sanzione pecuniaria è il presupposto giuridico. L'interessato, quindi, potrà far valere doglianze che abbiano ad oggetto esclusivo le sole sanzioni accessorie, quali la mancata previsione della pena accessoria o la previsione della stessa in misura diversa, come ad esempio, quando si contesti che la violazione astrattamente considerata non contemplava quella pena accessoria o non la prevedeva nella misura applicata. (In applicazione del principio, la S.C. ha confermato la sentenza del G.d.P. che aveva accolto il ricorso di un soggetto che, dopo avere effettuato il pagamento in misura ridotta per un'infrazione al codice della strada, aveva contestato la legittimità della sanzione accessoria della decurtazione dei punti dalla patente, per la mancata istituzione dei corsi di recupero del punteggio); Cass. civ. Sez. U., Sentenza n. 20544 del 29/07/2008.
5 In tema di violazione del codice della strada, la notificazione del verbale di contestazione al proprietario dell'autoveicolo presso la residenza risultante dal pubblico registro automobilistico (P.R.A.) è valida ed efficace, anche se la residenza non corrisponde a quella effettiva, se il destinatario della contestazione non abbia provveduto ex art. 94 cod. strada a comunicarne la modifica entro 60 gg. dal cambiamento, incombendo su di esso un obbligo di collaborazione la cui omissione integra un illecito amministrativo. (Nella fattispecie, la Corte ha cassato la sentenza del giudice di pace che aveva ritenuto invalida la notificazione del verbale di contestazione e della cartella esattoriale perché l'autore della violazione amministrativa non era più convivente col padre al momento della notifica, senza considerare gli obblighi di diligenza su di esso incombenti ex lege); Cass. Civ. 12 giugno 2008, n. 15831.
6 Nella notificazione eseguita ex art. 139, comma 3, c.p.c. l'omessa spedizione della raccomandata prescritta dal quarto comma della medesima disposizione non costituisce una mera irregolarità, ma un vizio dell'attività dell'ufficiale giudiziario che determina, fatti salvi gli effetti della consegna dell'atto dal notificante all'ufficiale giudiziario medesimo, la nullità della notificazione nei riguardi del destinatario; Cass. Civ. 30 giugno 2008, n. 17915 – conforme Cass. Civ. 10 ottobre 2008, n. 25031.
7 “A seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale del primo comma dell'art. 201 del codice della strada (Corte cost. n. 198 del 1996), nella parte in cui, in caso di identificazione del trasgressore successiva alla violazione, stabiliva che il termine di centocinquanta giorni per la notificazione della contestazione decorresse dalla data dell'avvenuta identificazione, anzichè da quella in cui risultava dai pubblici registri l'intestazione del veicolo o le altre qualifiche del soggetto responsabile, o comunque dalla data in cui la P.A. era posta in grado di provvedere all'identificazione, il termine per la notificazione degli estremi della violazione può decorrere da un momento successivo all'accertamento nei soli casi in cui l'identificazione del trasgressore sia possibile esclusivamente dopo l'espletamento delle formalità di iscrizione o di annotazione del trasferimento di proprietà del veicolo nei pubblici registri automobilistici, per gli effetti di cui all'art. 386 del regolamento di esecuzione del codice della strada. Pertanto, nel caso in cui la prima notificazione della contestazione non sia andata a buon fine per "indirizzo insufficiente" grava sull'Amministrazione l'onere di provare che l'identificazione del trasgressore sia stata possibile solo dopo l'espletamento delle ricerche anagrafiche a causa dell'omessa o tardiva comunicazione al P.R.A. del trasferimento di residenza da parte del trasgressore. (Nella fattispecie la S.C. ha cassato la sentenza del giudice di pace di rigetto dell'opposizione non essendo stata fornita dall'Amministrazione alcuna prova in ordine all'impossibilità della tempestiva identificazione del destinatario in quanto la dizione "indirizzo insufficiente" non evidenziava la non corrispondenza della residenza con il luogo risultante nei pubblici registri)”; Cass. Civ. Sentenza n. 27936 del 24/11/2008.
8 “La competenza sull'opposizione all'ordinanza - ingiunzione ex art. 22 l. 24 novembre 1981 n. 689, è devoluta funzionalmente e, quindi, inderogabilmente, al giudice del luogo in cui è stata commessa l'infrazione; pertanto, nei giudizi instaurati nel vigore del testo vigente (a seguito della modifica apportata dall'art. 4 della legge n. 353 del 1990) dell'art. 38 c.p.c. (e, quindi, dopo il 30 aprile 1995) tale forma d'incompetenza territoriale del giudice adito è rilevabile, anche d'ufficio, ma solo entro la prima udienza di trattazione”; Cass. Civ. 20 aprile 2005, n. 8294.
9 “Le sentenze del giudice di pace non sono soggette a regolamento di competenza, nè necessario, nè facoltativo, come espressamente dispone l'art. 46 c.p.c. e, se il valore della causa non supera Euro 1.100, il mezzo di impugnazione ammissibile è il ricorso per cassazione, a norma degli art. 113, comma 2, e 339, comma 3, dello stesso codice sia che il giudice abbia pronunciato sul merito della controversia, sia che si sia limitato ad una pronuncia sulla competenza o su altra questione preliminare di rito o di merito, sia che abbia pronunciato sulla competenza e sul merito”; Cass. Civ. 20 aprile 2005, n. 8294.
10 “Nei giudizi dinanzi al giudice di pace, ai sensi dell'art. 44 c.p.c., qualora il giudice preventivamente adito declini la propria competenza, affermando la competenza per materia o territoriale inderogabile di altro giudice, e la parte non impugni con l'appello la relativa decisione, provvedendo a riassumere tempestivamente il giudizio dinanzi al giudice indicato come competente, si ha acquiescenza alla declaratoria di incompetenza e la competenza del giudice indicato rimane incontestabilmente stabilita”; Cass. Civ. 04 agosto 2006, n. 17695.
11 Cassazione civile , sez. un., 22 febbraio 2007, n. 4109.
12 4.3. Deve, pertanto, essere affermato il seguente principio di diritto: "Il giudice tributario innanzi al quale sia stato impugnato un provvedimento di fermo di beni mobili registrati ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 86, deve accertare quale sia la natura - tributaria o non tributaria - dei crediti posti a fondamento del provvedimento in questione, trattenendo, nel primo caso, la causa presso di se, interamente o parzialmente (se il provvedimento faccia riferimento a crediti in parte di natura tributaria e in parte di natura non tributaria), per la decisione del merito e rimettendo, nel secondo caso, interamente o parzialmente, la causa innanzi al giudice ordinario, in applicazione del principio della translatio iudicii. Allo stesso modo deve comportarsi il giudice ordinario eventualmente adito. Il debitore, in caso di provvedimento di fermo che trovi riferimento in una pluralità di crediti di natura diversa, può comunque proporre originariamente separati ricorsi innanzi ai giudici diversamente competenti".
13 ”È costituzionalmente illegittimo l'art. 30 l. 6 dicembre 1971 n. 1034, nella parte in cui non prevede che gli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta a giudice privo di giurisdizione si conservino, a seguito di declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione. Premesso che non può addebitarsi al rimettente di non aver valutato la praticabilità di una soluzione costituzionalmente orientata - in quanto non è condivisibile l'assunto, fatto proprio dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite, secondo il quale non esisterebbe nel nostro ordinamento un divieto espresso di "translatio iudicii" nei rapporti fra g.o. e giudice speciale, dal momento che l'espressa previsione della translatio con esclusivo riferimento alla competenza non può significare altro se non divieto di applicare il medesimo istituto alla giurisdizione -, il principio della incomunicabilità dei giudici appartenenti ad ordini diversi, se comprensibile in altri momenti storici, è certamente incompatibile, oggi, con fondamentali valori costituzionali, non potendo la previsione di una pluralità di giudici risolversi in una minore effettività, o addirittura in una vanificazione, della tutela giurisdizionale; evenienza, questa, che si verifica quando la disciplina dei rapporti tra diverse giurisdizioni, per di più innervantesi su un riparto di competenze complesso ed articolato, è tale per cui l'erronea individuazione del giudice munito di giurisdizione, o l'errore del giudice in tema di giurisdizione, può risolversi in un pregiudizio irreparabile della possibilità stessa di un esame nel merito della domanda, con conseguente pregiudizio per il diritto alla tutela giurisdizionale e ad una ragionevole durata del giudizio. La disciplina legislativa che necessariamente dovrà essere emanata per colmare una lacuna dell'ordinamento processuale sarà vincolata solo nel senso che dovrà dare attuazione al principio della conservazione degli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta a giudice privo di giurisdizione nel giudizio ritualmente riattivato davanti al giudice che ne è munito, ed il legislatore è libero di disciplinare, nel modo ritenuto più opportuno, il meccanismo della riassunzione”; Corte costituzionale, 12 marzo 2007, n. 77.
14 “La competenza per l'opposizione a decreto ingiuntivo, attribuita dall'art. 645 c.p.c. all'ufficio giudiziario cui appartiene il giudice che ha emesso il decreto, ha carattere funzionale ed inderogabile, stante l'assimilabilità del giudizio di opposizione a quello di impugnazione, sicché essa non può subire modificazioni neppure per una situazione di connessione, senza che rilevi in contrario la eliminazione della regola della rilevabilità d'ufficio delle competenze cosiddette forti in ogni stato e grado. Ne consegue che, nel caso in cui, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo emesso dal giudice di pace, sia proposta dall'opponente domanda riconvenzionale eccedente i limiti di valore della competenza del predetto giudice, questi è tenuto a separare le due cause, trattenendo quella relativa alla opposizione e rimettendo l'altra al giudice superiore, e che, in difetto, il giudice superiore cui sia stata rimessa l'intera causa può richiedere, nei limiti temporali fissati dall'art. 38 c.p.c., il regolamento di competenza ex, art. 45 c.p.c.”; Cass. Civ. 20 settembre 2006, n. 20324 – Cass. Civ. 17 marzo 2006, n. 6054 - Giudice di pace Bari, 19 gennaio 2007, n. 597.
15 “L'inderogabilità della competenza territoriale si ha soltanto nei casi in cui sia espressamente disposta dalla legge (art. 28 c.p.c.). Fra questi casi non è compreso il foro stabilito dalle parti - che, appunto perché pattizio e non legale, dà luogo ad un'ipotesi di competenza derogata e non già inderogabile - e, pertanto, tale foro, ancorché sia esclusivo (art. 29 c.p.c.), non impedisce, al pari di ogni altro criterio determinativo della competenza, che questa sia suscettibile di modificazioni per ragioni di connessione, in base alle regole della prevenzione e dell'assorbimento ovvero del cumulo soggettivo (art. 31, 33, 39 e 40 c.p.c.)”. Cass. Civ. 15 luglio 1985, n. 4143.
16 “Le disposizioni di cui al comma 3, 4, 5 dell'art. 40 c.p.c. dettano i criteri di individuazione del rito applicabile nell'ipotesi di cause connesse assoggettate a riti differenti, e derogano ad uno dei riti applicabili; esse non possono, invece, derogare alla disciplina della competenza, quale è ad esempio la competenza inderogabile per materia del pretore ex art. 45 l. n. 392 del 1978”; Cass. Civ. 02 febbraio 1996, n. 898.
17 “Ove il giudice di pace, adito con domanda rientrante nella sua competenza "ratione materiae" (nella specie, per il rispetto delle distanze legali nella piantagione di alberi), sia investito, in via riconvenzionale, di una domanda eccedente la sua competenza per valore o per materia (nella specie, di accertamento dei confini tra i due fondi e condanna al risarcimento dei danni cagionati dai lavori di scavo e sbancamento eseguiti dall'attore), egli è tenuto, non operando la translatio iudicii a norma del citato art. 36 c.p.c., a trattenere la causa principale, separando la causa riconvenzionale per la quale non è competente, senza che possa assumere alcuna rilevanza in contrario la disposizione del comma 6 del novellato art. 40 del codice di rito, secondo la quale, se una causa di competenza del giudice di pace sia connessa per i motivi di cui agli art. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c. con altra causa di competenza del tribunale, le relative domande possono essere proposte davanti al tribunale per essere decise nello stesso processo, nè quella del comma 7 dello stesso articolo, che prevede che, se le cause connesse ai sensi del comma 6 sono proposte davanti al giudice di pace e al tribunale, il primo deve pronunciare anche di ufficio la connessione a favore del tribunale. Infatti, tali disposizioni non prevedono l'ipotesi in cui le predette domande siano proposte sin dall'inizio davanti al giudice di pace, rimanendo ferma, in tale ipotesi, in caso di riconvenzionale di competenza del giudice togato, la competenza funzionale e inderogabile del giudice di pace per la causa principale”; Cass. Civ. 08 maggio 2002, n. 6595.
18 In sede di opposizione a cartella esattoriale, emessa per il pagamento di sanzione amministrativa, è consentito all'intimato, qualora si deduca la mancata notifica del verbale di accertamento dell'infrazione o dell'ordinanza-ingiunzione irrogativa della sanzione, contestare per la prima volta la validità del titolo esecutivo; in tal caso al soggetto esattore deve riconoscersi, insieme all'ente impositore titolare della pretesa contestata, la concorrente legittimazione passiva. Di conseguenza, l'opposizione deve essere proposta anche nei confronti del medesimo esattore, che ha emesso la cartella esattoriale ed al quale va riconosciuto l'interesse a resistere anche per gli innegabili riflessi che un eventuale accoglimento dell'opposizione potrebbe comportare nei rapporti con l'ente, che ha provveduto ad inserire la sanzione nei ruoli trasmessi ai sensi dell'art. 27 l. 24 novembre 1981 n. 689. Inoltre, trattandosi d'ipotesi di litisconsorzio necessario, la mancata integrazione del contraddittorio può essere rilevata anche d'ufficio in ogni stato e grado del processo. (Nella specie la S.C. ha cassato con rinvio l'impugnata sentenza - depositata l'11 dicembre 2003 - sussistendo nullità del giudizio di primo grado perché il g.d.p. l'aveva pronunciata in difetto di contraddittorio nei confronti della società concessionaria del servizio riscossione, che aveva predisposto e notificato, per il pagamento della sanzione pecuniaria per infrazione stradale, la cartella esattoriale oggetto di opposizione); Cass. Civ. 20 novembre 2007, n. 24154 - in senso analogo Cassaz. civ. sent. n. 709 del 16.01.2008.
19 “L'esercizio della potestà di autotutela è rimessa alla più ampia valutazione discrezionale dell'Amministrazione. A fronte di istanze sollecitatorie al suo esercizio il privato è titolare di una posizione di mero interesse semplice, che non rende obbligatoria né coercibile l'attivazione del procedimento di riesame”. Consiglio Stato , sez. VI, 20 gennaio 2009, n. 257.
20 “Ai sensi dell'art. 23 comma 7, l. 6 dicembre 1971 n. 1034 la cessazione della materia del contendere può essere prospettata come causa estintiva del processo solo quando la pretesa del ricorrente, ovvero il bene della vita cui aspira, ha trovato piena e comprovata soddisfazione in via extragiudiziale, sì da rendere del tutto inutile la prosecuzione del processo stante l'oggettivo venir meno della lite; mancando tale presupposto la richiesta formulata può essere valutata dal giudice come declaratoria di sopravvenuta carenza di interesse a continuare a coltivare il giudizio di appello ma con la conseguenza che, mentre la cessazione della materia del contendere incide sull'oggetto del giudizio e quindi sul merito del processo, eliminandolo, la carenza sopravvenuta incide su un mero presupposto processuale (l'interesse a ricorrere), impedendo il passaggio al merito e può essere dichiarata dal difensore”; Consiglio Stato , sez. V, 05 marzo 2009, n. 1316.
21 “Il giudice può, in qualsiasi stato e grado del processo, dare atto d'ufficio della cessazione della materia del contendere intervenuta nel corso del giudizio se ne riscontri i presupposti, e cioè se risulti ritualmente acquisita o concordemente ammessa una situazione dalla quale emerga che è venuta meno ogni ragione di contrasto tra le parti, a ciò non ostando la perdurante esistenza di una situazione di conflittualità in ordine alle spese, dovendosi provvedere sulle stesse secondo il principio della soccombenza virtuale. (Fattispecie relativa a giudizio di cassazione dichiarato inammissibile a seguito della sopravvenuta cessazione della materia del contendere, in un giudizio avente ad oggetto una opposizione agli atti esecutivi nel corso di procedura esecutiva immobiliare definita con il pagamento del credito dell'esecutante)”; Cass. civile , sez. III, 11 gennaio 2006, n. 271 - Cass. civile , sez. III, 06 febbraio 2007, n. 2567 – Cass. civile , sez. I, 13 settembre 2007, n. 19160.
“Come sostenuto da copiosa giurisprudenza in tema, la cessazione della materia del contendere può essere dichiarata dal giudice d'ufficio quando sia sopravvenuta una situazione riconosciuta da entrambi le parti che ne abbia eliminato il contrasto anche circa la rilevanza giuridica delle vicende sopravvenute ed abbia perciò fatto venire meno la necessità della pronuncia del giudice sull'oggetto della controversia. Per pronunciare la cessata materia del contendere è necessario verificare se il provvedimento sopravvenuto abbia determinato in modo davvero completo ed esauriente la realizzazione della pretesa fatta valere. In tal senso, la decisione che afferma la cessata materia del contendere non ha valenza meramente processuale, ma contiene anche un accertamento relativo al rapporto controverso. .......Poiché l'unico elemento in contrasto risulta essere il riconoscimento delle spese di lite, domanda su cui insiste parte convenuta, è necessario al fine della loro liquidazione valutare la soccombenza virtuale”, Tribunale Milano, 14 marzo 2008, n. 3459.
22 “È costituzionalmente illegittimo l'art. 23 comma 5 l. 24 novembre 1981, n. 689, nella parte in cui prevede che il pretore convalidi il provvedimento opposto in caso di mancata presentazione dell'opponente o del suo procuratore alla prima udienza senza addurre alcun legittimo impedimento, anche quando l'illegittimità del provvedimento risulti dalla documentazione allegata dall'opponente”.
23 “È costituzionalmente illegittimo - per contrasto con gli art. 3 e 24 cost. - l'art. 23 comma 5 l. 24 novembre 1981 n. 689, recante modifiche al sistema penale, nella parte in cui, in tema di opposizione ad ordinanza - ingiunzione che irroga sanzioni amministrative prevede che il pretore convalidi il provvedimento opposto in caso di mancata presentazione dell'opponente o del suo procuratore alla prima udienza senza addurre alcun legittimo impedimento, anche quando l'amministrazione irrogante abbia omesso il deposito dei documenti di cui al comma 2 dello stesso art. 23, atti a comprovare la legittimità della pretesa sanzionatoria”.
24 “Nell'opposizione ad ingiunzione di pagamento di sanzione pecuniaria amministrativa disciplinata dagli art. 22 e 23 l. 24 novembre n. 689, tutti i documenti che, in qualsiasi forma, risultino depositati in giudizio dall'amministrazione, devono ritenersi acquisiti al processo, a prescindere dalla rituale costituzione in giudizio dell'amministrazione opposta. Pertanto il giudice adito deve valutarli - tenendo conto della ripartizione dell'onere probatorio a carico di ciascuna delle parti - in funzione del giudizio sulla legittimità della pretesa sanzionatoria” Cass. civile, sez. lav., 03 giugno 2002, n. 8037.
25 “Nel giudizio di opposizione al pagamento di sanzione amministrativa pecuniaria, a seguito delle dichiarazioni di illegittimità costituzionale relative all'art. 23, comma 5, della legge n. 689 del 1981 (Corte cost., sent. n. 534 del 1990 e n. 507 del 1993), l'emanazione della ordinanza di convalida (che costituisce provvedimento decisorio, non revocabile dal giudice che lo ha emesso) è subordinata a tre condizioni: 1) la mancata comparizione dell'opponente o del suo procuratore; 2) la non fondatezza dell'opposizione sulla base dei motivi di ricorso e dei documenti prodotti; 3) il deposito da parte dell'amministrazione irrogante di copia del rapporto con gli atti relativi all'accertamento, nonché alla contestazione e alla notificazione della violazione; ne consegue che il giudice, ove ritenga di convalidare il provvedimento opposto, ha l'obbligo di motivare in ordine a tutti e tre i presupposti, restando in particolare escluso che, con riferimento al giudizio di non fondatezza dell'opposizione, valga a soddisfare tale obbligo il generico ed esclusivo richiamo, come nella specie, alla non manifesta infondatezza del provvedimento impugnato. Allorché detta motivazione sussista non è possibile in sede di giudizio di legittimità sindacarne la persuasività sotto il profilo della completezza valutativa o della sua esattezza” Cass. civile , sez. I, 25 gennaio 2007, n. 1653.
“Nel giudizio di opposizione avverso i provvedimenti irrogativi di sanzioni amministrative, disciplinato dagli art. 22 e 23 l. 24 novembre 1981 n. 689, l'ordinanza di cui al comma 5 del citato art. 23, con la quale il giudice convalida il provvedimento impugnato per mancata comparizione alla prima udienza dell'opponente che non abbia fatto pervenire tempestiva notizia di un suo legittimo impedimento, è sufficientemente motivata ove (come verificatosi nella specie) il giudice dia atto di aver valutato la documentazione hinc ed inde prodotta e di averne tratto il convincimento della non manifesta illegittimità del provvedimento stesso in relazione alle censure mosse dall'opponente, senza necessità di dettagliato riferimento e di specifica puntuale disamina in ordine a ciascuna delle doglianze stesse, poiché, diversamente opinando, verrebbe frustrata la ratio sottesa alla predetta norma, intesa alla sollecita definizione dei procedimenti nei quali la parte attrice abbia omesso di darvi impulso così manifestando la propria carenza di effettivo interesse, con negativi riflessi anche sulla durata del singolo giudizio e sui tempi di trattazione degli altri procedimenti che siano stati, invece, correttamente coltivati. Ne consegue che, allorquando il giudice abbia adottato, ai fini della suddetta convalida, una motivazione che risponda ai riferiti requisiti minimi, non si prospetta possibile in sede di legittimità sindacarne la persuasività sotto il profilo della completezza valutativa o della sua esattezza” Cass. civile , sez. II, 19 marzo 2007, n. 6415.
26 Come disposto esplicitamente dall’art. 36 del D.L. 31 dicembre 2007 n. 248 (in Gazz. Uff., 31 dicembre, n. 302). - Decreto convertito, con modificazioni, in legge 28 febbraio 2008 n. 31.
27 In tal senso si esprime Cassaz. Civ. II sez. 3701/07 ma con un palese errore nel richiamarsi al combinato disposto dell’art. 203 CdS e dell’art. 27 della legge 689/81, anziché dell’art. 17 stessa legge.
28 Con le note sentenze a sezioni unite n. 491 del 13.07.2000 e n. 562 del 10.08.2000, confermate da ultimo da sent. n.2819 del 08.02.2006, sent. n.4891 del 07.03.2006 – “Avverso la cartella esattoriale emessa ai fini della riscossione di sanzioni amministrative per violazioni del codice della strada sono esperibili: a) l'opposizione ai sensi della l. 24 novembre 1981 n. 689, allorché sia mancata la notificazione dell'ordinanza ingiunzione o del verbale di accertamento della violazione, b) l'opposizione all'esecuzione ex, art. 615 c.p.c., allorché si contesti la legittimità dell'iscrizione a ruolo per difetto di un titolo legittimante o per il sopravvenire di fatti estintivi dell'obbligo, c) l'opposizione agli atti esecutivi ex, art. 617 c.p.c., qualora si deducano vizi della cartella. Peraltro, nell'ipotesi in cui il giudice abbia qualificato la domanda come opposizione ad ordinanza ingiunzione ed abbia applicato il rito di cui alla legge n. 689 del 1989, pur avendo l'opponente fatto valere motivi riconducibili all'art. 615 c.p.c., la sentenza non è impugnabile con l'appello, ma con il ricorso per cassazione, trovano applicazione la regola secondo cui l'identificazione del mezzo d'impugnazione esperibile va fatta, in ossequio al principio dell'apparenza, con esclusivo riferimento alla qualificazione dell'azione proposta compiuta dal giudice, indipendentemente dalla sua esattezza (Cass. Civ. 08 febbraio 2006, n. 2819).
29 ”Alla procedura sanzionatoria di cui agli art. 43 e 44 d.lg. 23 luglio 1996 n. 415, sui servizi di investimento nel settore dei valori mobiliari, è applicabile la l. 24 novembre 1981 n. 689, quale lex generalis nella materia delle violazioni per le quali è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro (salvo il necessario coordinamento sia con le disposizioni di cui agli art. 4 e 5 d.lg. n. 415, cit., sia per quanto attiene alla procedura di contestazione delle violazioni, con la particolare struttura della Consob e con le modalità di contestazione e di accertamento delle violazioni stesse); ne consegue che sono applicabili i principi secondo cui il giudizio di opposizione è strutturato in conformità del modello del processo civile e risponde alle regole, in particolare, della domanda (art. 90 c.p.c.), della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato e del divieto della pronuncia d'ufficio su eccezioni rimesse esclusivamente all'iniziativa della parte (art. 112 c.p.c.), nonché ai limiti alla modificazione della "causa petendi" (art. 183 c.p.c.) che, in tali giudizi, resta individuata sulla base dei motivi di opposizione” (nella fattispecie, la S.C. ha ritenuto affetto da vizio di ultrapetizione il decreto della Corte d'appello che aveva annullato il provvedimento sanzionatorio per violazione del termine perentorio per la contestazione degli addebiti, senza che tale vizio fosse stato lamentato dall'opponente) Cass. Civ. 27 giugno 2002, n. 9387 - (vedi conformi sent. 9245/2002, n. 14238/2001, n.7876/2001, n.14320/2001, n.. 11595/2001).
30 Cassaz.civ. SS.UU. sent 20.05.2008 n. 14831.
31 Cass. Civ. sez. un., 22 febbraio 2007, n. 4109.
32 In tema di violazioni alle norme del codice della strada, con riferimento alla sanzione pecuniaria inflitta per l'illecito amministrativo previsto dal combinato disposto degli art. 126 bis comma 2, penultimo periodo, e 180 comma 8, del codice suddetto, il proprietario del veicolo, in quanto responsabile della circolazione dello stesso nei confronti delle pubbliche amministrazioni non meno che dei terzi, è tenuto sempre a conoscere l'identità dei soggetti ai quali ne affida la conduzione, onde dell'eventuale incapacità d'identificare detti soggetti necessariamente risponde, nei confronti delle une per le sanzioni e degli altri per i danni, a titolo di colpa per negligente osservanza del dovere di vigilare sull'affidamento in guisa da essere in grado di adempiere al dovere di comunicare l'identità del conducente. Peraltro, la sentenza della Corte cost. n. 27 del 2005 - che pure ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del comma 2 art. 126 bis c. strad., nella parte in cui era comminata la riduzione dei punti della patente a carico del proprietario del veicolo che non fosse stato anche responsabile dell'infrazione stradale - ha affermato, con asserzione che in quanto interpretativa e confermativa della validità di norma vigente, trova applicazione anche ai fatti verificatisi precedentemente e regolati dalla norma stessa, che "nel caso in cui il proprietario ometta di comunicare i dati personali e della patente del conducente, trova applicazione la sanzione pecuniaria di cui all'art. 180 comma 8 c. strad. e che "in tal modo viene anche fugato il dubbio in ordine ad una ingiustificata disparità di trattamento realizzata tra i proprietari di veicoli, discriminati a seconda della loro natura di persone giuridiche o fisiche, ovvero, quanto a queste ultime, in base alla circostanza meramente accidentale che le stesse siano munite o meno di patente" (Nella specie, il giudice di pace aveva rigettato l'opposizione al verbale di accertamento, per violazione dell'art. 180 comma 8 c. strad., proposta da una società in s.a.s., secondo cui le era stato impossibile identificare il conducente a causa dei numerosi automezzi di sua proprietà affidati a vari dipendenti e dell'insussistenza dell'obbligo di registrare ciascun affidamento; la S.C., poiché non era stata fornita idonea ragione per esimersi da responsabilità, ha rigettato il ricorso per erronea interpretazione della norma suddetta in relazione alla sentenza della Corte costituzionale n. 27 del 2005), Cass. Civ. 12 giugno 2007, n. 13748.

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