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ALTALEX NEWS


mercoledì 20 febbraio 2008

Cassazione penale Sentenza, Sez. IV, 28/01/2008, n. 4153 - liquidazione dell'onorario del difensore d'ufficio dell'irreperibile di fatto -

Un’importante sentenza della Suprema Corte di Cassazione ( Cassazione penale Sentenza, Sez. IV, 28/01/2008, n. 4153 reperibile sull’indirizzo internet http://www.praticantidiritto.it/news_dett.aspx?nwid=723 con relativo commento) affronta il tema quid juris per la liquidazione dell’onorario del difensore d’ufficio di persona domiciliata presso tale difensore ma di fatto irreperibile.
Come è noto, a termini dell'art. 116 d.P.R. 115/2002, l 'onorario e le spese spettanti al difensore di ufficio sono liquidati dal magistrato «quando il difensore dimostra di aver esperito inutilmente le procedure per il recupero dei crediti professionali». Mentre per l’ art. 117 del d.P.R. 115/2002, non è necessaria una preventiva attivazione del legale d'ufficio per il recupero del credito professionale nel caso in cui l’imputato (o l’indagato o il condannato) sia “irreperibile”. In tali ipotesi, infatti, è sufficiente che il difensore formuli direttamente al Giudice l’istanza di liquidazione corredata di nota spese senza svolgere alcuna preventiva attività finalizzata al recupero del credito per l’attività professionale svolta. La giurisprudenza è divisa : secondo un orientamento, per l’applicazione dell’art. 117 sarebbe necessario che l’imputato sia stato preventivamente dichiarato irreperibile (in questo senso cfr. Cass, Sez. IV 20.12.2002, Battistella, CED 224011) con un effettivo decreto di irreperibilità emesso in tal senso dall’A.G.; tra l’altro, secondo un orientamento restrittivo sarebbe dubitabile che l’art. 117 possa trovare applicazione nel caso in cui l’imputato abbia eletto domicilio presso il difensore d’ufficio. La sentenza affronta il tema appena delineato sostenendo che, ai fini dell’art. 117, viene in considerazione la condizione di fatto di irreperibilità dell’imputato, a nulla rilevando l’eventuale elezione di domicilio presso il difensore. E’ questa sicuramente un’interpretazione di buon senso fornita dalla Suprema Corte nell’interpretazione della norma, in primo luogo in quanto l’art. 117 citato non utilizza l’espressione “che sia dichiarato irreperibile” – con evidente necessaria applicabilità dell’art. 159 c.p.p. - preferendo piuttosto la semplice espressione “irreperibile”. Secondo la Corte, infatti, «l’art. 117 non specifica la significazione del termine “irreperibile”; in particolare non si richiamano espressamente gli artt. 159 e 160 c.p.p., sicché, in sostanza, non si chiarisce se “irreperibile” è solo il soggetto che tale sia stato dichiarato nel corso del procedimento penale con apposito decreto del giudice, ovvero anche la persona che, pur rintracciata nel procedimento penale, venga successivamente a trovarsi in una situazione di sostanziale irrintracciabilità». In relazione all’“irreperibilità” invocata dall’art. 117 d.P.R. 115/2002 la dicotomia concettuale si divide tra chi vuole accedere ad una concezione strettamente giuridica della categoria, secondo cui occorre la previa emissione di apposito decreto ex art. 159 c.p.p., e chi propone l’approccio ad una concezione sostanzialistica, che invece dà rilievo alla situazione di fatto, anche in assenza di apposita dichiarazione con il decreto.
Secondo la Corte ai fini del giudizio di irreperibilità assume rilievo la circostanza che se il debitore sia «sostanzialmente irrintracciabile, anche in mancanza di un formale decreto ex art. 160 c.p.p., sicché non era esigibile da parte del difensore istante alcuna previa procedura intesa al recupero del credito professionale, tenuto conto anche della sostanziale equiparazione quoad effectum tra irreperibilità formalmente dichiarata ex art. 159 c.p.p. e quelle presunta ex lege ai sensi dell’art. 161, comma 4, c.p.p.».
Va inoltre sottolineato che tale principio interpretativo apporta diversi vantaggi al sistema. Infatti, stanti le continue dichiarazioni di assoluta difficoltà a gestire il carico delle liti giudiziarie nei rispettivi uffici e dei relativi costi – costantemente denunciati come in aumento – che progressivamente il sistema sostiene, tale scelta interpretativa risolverebbe i disagi per l’intasamento delle procedure di recupero dei crediti, limitando al contempo sia le spese (si pensi ai costi per Giudici di Pace che emettono il decreto ingiuntivo, le anticipazioni a debito degli Ufficiali Giudiziari che notificano, le ulteriori anticipazioni a debito dei contributi unificati e delle spese di registro e l’utilizzo di personale che nel contempo rimane sommerso di inutili procedure di recupero nei confronti di persone sostanzialmente non identificate).
Tra l’altro, lo Stato – appena diventi rintracciabile la persona nei cui confronti ha anticipato il pagamento delle spese difensive – può recuperare le sue anticipazioni attraverso i canali che già utilizza per il recupero delle spese di giustizia nei confronti dell’obbligato attraverso le cartelle di pagamento. Questa semplificazione può solo apportare benefici all’intero sistema e anche rendere più attento il cittadino sottoposto a giudizio penale circa l’opportunità di seguire l’iter del processo anziché disinteressarsene.
(di Amalia Lamanna - Riproduzione vietata senza citare fonte e autore-)

lunedì 4 febbraio 2008

L'omesso versamento di somme dovute quale mantenimento all'ex coniuge è procedibile d'ufficio

SENTENZA N. 39392 UD.03/10/2007 - DEPOSITO DEL 24/10/2007
DELITTI CONTRO L'AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA - ART. 12 SEXIES L. 1 DICEMBRE 1970, N. 898 - PROCEDIBILITA' D'UFFICIO
La Corte, pronunciandosi su una questione controversa, ha affermato che il reato di omesso versamento di somme dovute a titolo di mantenimento all'ex coniuge (art. 12 sexies L. 1° dicembre 1970, n. 898) è procedibile d'ufficio. In motivazione, la Corte ha ricordato tra l’altro come tale regime sia stato ritenuto non meritevole di censura dalla Corte costituzionale, in relazione a quello di procedibilità a querela previsto per il reato di cui all’art. 570 c.p. (sentt. nn. 325 del 1995 e 472 del 1989).
Sentenza n. 39392 del 3 ottobre 2007 - depositata il 24 ottobre 2007(Sezione Sesta Penale, Presidente B. Oliva, Relatore G. Fidelbo)
La sentenza è stata massimata, per la visualizzazione della massima e del testo integrale della sentenza consultare la banca dati Italgiure-Web

L'art. 157 co 8 bis cpp va davanti alle Sezioni Unite

ORDINANZA N. 2259 UD.05/12/2007 - DEPOSITO DEL 16/01/2008
NOTIFICAZIONI - IMPUTATO CHE ABBIA DICHIARATO O ELETTO DOMICILIO A NORMA DELL'ART. 161 C.P.P. - NOTIFICAZIONE SUCCESSIVA NELLE FORME DELL'ART. 157, COMMA 8-BIS C.P.P. - RIMESSIONE ALLE SEZIONI UNITE
Con la decisione in esame, la Corte, preso atto di un contrasto di giurisprudenza sul punto, ha rimesso alle Sezioni Unite il ricorso proposto sul rilievo che la notificazione dell’avviso di fissazione del giudizio risultava effettuata al difensore di fiducia nelle forme dell’art. 157, comma 8-bis cod. proc. pen., nonostante la preesistenza di una dichiarazione di domicilio. Tale questione ha dato origine a contrastanti pronunce della Suprema Corte (nel senso dell’illegittimità: sez. V, n.8108/2007, Landro; nel senso della legittimità: sez. III, n. 41063/2007, Ardito).
Ordinanza n. 2259 del 5 dicembre 2007 - depositata il 16 gennaio 2008(Sezione Terza Penale, Presidente E. Papa, Relatore A. Fiale)
( maggiori informazioni sono reperibili sul sito www.cortedicassazione.it )

sabato 2 febbraio 2008

cassazione penale sez. II n. 36642 del 5.10.2007 Lavoro in nero. Minaccia da parte del datore di lavoro di licenziamento. Estorsione

Cassazione penale, sez. II, sentenza 05.10.2007, n. 36642 Lavoro in nero. Minaccia da parte del datore di lavoro di licenziamento. Estorsione
Osserva1.1. Con sentenza in data 21-1-2003 la Corte di appello di Cagliari, sez. distaccata di Sassari, in riforma della sentenza di assoluzione emessa dal Tribunale di Nuoro in data 7.11.2000 con la formula il fatto non sussiste, dichiarava – per quanto qui rileva – L. G., L. M. e M. A. responsabili dei delitti, ad essi rispettivamente ascritti, di estorsione aggravata e continuata e, concesse le attenuanti generiche, prevalenti sulle aggravanti contestate, li condannava alla pena di anni tre, mesi sei di reclusione ed € 800,00 di multa, nonché, in solido, al pagamento delle spese del doppio grado.Secondo la prospettazione accusatoria, recepita dai Giudici di appello, gli imputati avevano posto in essere una serie di comportamenti estorsivi nei confronti di proprie lavoratrici dipendenti, costringendole ad accettare trattamenti retributivi deteriori e non corrispondenti alle prestazioni effettuate e, in genere, condizioni di lavoro contrarie alla legge e ai contratti collettivi, approfittando della situazione di mercato in cui la domanda di lavoro era di gran lunga superiore all’offerta e, quindi, ponendo le dipendenti in una situazione di condizionamento morale, in cui ribellarsi alle condizioni vessatorie equivaleva a perdere il posto di lavoro.La vicenda era ricostruita dalla Corte territoriale, sulla scorta della prova orale e documentale e, segnatamente, in base agli esiti delle indagini, confermati in sede di deposizione testimoniale, che l'Ispettorato del lavoro di Nuoro aveva effettuato con riguardo ai rapporti di lavoro intercorsi tra la s.a.s. X. (i cui soci erano L. M. e D. P., altra imputata, la cui posizione era stata stralciata) e le dipendenti Z. P., M. R., C. M. G. e F. A. in vari periodi tra il 1983 e il 1993 e, successivamente, esteso ai rapporti di lavoro intercorsi tra la ditta individuale Y. di M. A. (poi divenuta s.n.c. Y., con amministratore M. A. e, quindi, s.r.l. Y., con amministratore unico L. G. e la M. socia) e le dipendenti C. R., P. G., S. L. e P. M. in vari periodi tra il 1983 e il 1994.In particolare - con riguardo al capo A. di imputazione ascritto a L. M. (e alla D. P.) - si accertava che le indicate dipendenti della X. s.a.s. erano state assunte senza libretto di lavoro, non avevano ricevuto copertura assicurativa (tranne una e per un breve periodo), non avevano goduto ferie, né percepito corrispettivi per lavoro straordinario ed altri emolumenti ad essi spettanti e che le stesse firmavano prospetti-paga indicanti importi superiori a quelli percepiti. Inoltre la dipendente Z. P. era stata indotta a sottoscrivere un contratto di associazione in partecipazione, senza che la sua qualità fosse mutata, nonché costretta a mentire sulla propria posizione agli ispettori del lavoro, oltre che a firmare una dichiarazione in cui si assumeva la responsabilità, con il fidanzato, di un furto di capi di abbigliamento subito dall'azienda.Con riguardo al capo B. di imputazione, ascritto a L. G. e M. A., si accertava che le indicate dipendenti della ditta Y. erano state assunte senza libretto di lavoro, non godevano di assistenza assicurativa, firmavano buste paga per importi superiori a quelli realmente percepiti, non percepivano emolumenti ad essi spettanti (quali la quattordicesima mensilità) e ricevevano un trattamento corrispondente a quello del contratto di formazione lavoro, pur osservando un orario superiore a quello previsto dai contratti collettivi.I Giudici di primo grado, pur reputando accertati i fatti contestati nei capi di imputazione nella loro materialità, avevano ritenuto che difettasse il presupposto della minaccia di licenziamento illegittimo, correlata alle pretesa delle prestazioni lavorative alle condizioni richiamate. A parere del Tribunale non era ravvisabile una coartazione della volontà in senso penalmente rilevante, in quanto il licenziamento aveva costituito una condizione preesistente all'assunzione per le dipendenti che non avessero voluto accettare le chiare, anche se illegali, condizioni proposte dagli imputati.In contrario avviso i Giudici di secondo grado rilevavano che l'idoneità della condotta degli imputati a integrare l'elemento strutturale della minaccia emergeva da un complesso di elementi, quali l'ingiustizia della pretesa, la personalità sopraffattrice dei soggetti agenti, le circostanze ambientali quantomai favorevoli ai datori di lavoro. In particolare la Corte territoriale - sotto il profilo dell'ingiustizia della pretesa - escludeva la rilevanza della circostanza, evidenziata dalla difesa, secondo cui le pretese delle lavoratrici erano tutelabili innanzi al Giudice del lavoro, osservando che la F. e la C., pur vincitrici nelle relative cause, non erano riuscite ad ottenere alcunché dal L. M.; evidenziava, inoltre, una serie di comportamenti significativi della personalità dei soggetti agenti (e in particolare: la pretesa di L. M. nei confronti della Z. del rilascio della dichiarazione di ammissione del furto, dichiarazione che - come riferito dal teste F. B. - sarebbe stata utilizzata nei confronti della dipendente qualora avesse inteso ribellarsi alle inique condizioni di lavoro; la «fuga» imposta dalla M. A. a una dipendente allorché aveva avuto sentore della venuta degli ispettori; l'atteggiamento del L. G. e di M. A., inteso ad ostacolare i colloqui tra le dipendenti e l'ispettore del lavoro); infine precisavano che - quand'anche si ritenesse intervenuto tra i titolari dell'azienda e le lavoratrici un accordo contrattuale - non per questo andava esclusa la sussistenza dell'estorsione, dal momento che, al di là dell'aspetto formale dell'accordo contrattuale la condotta dei fratelli L. e della M. risultava posta in essere nella sola prospettiva di conseguire un ingiusto profitto con altrui danno, quest'ultimo inteso come contributo di energie lavorative impiegate dalle persone offese a vantaggio del titolare dell'azienda in cambio di una retribuzione inferiore a quella dovuta e dichiarata nella busta-paga.Sulla base di tali premesse i Giudici di appello ritenevano L. M. responsabile del reato di estorsione come contestato sub A. nei capi di imputazione per i rapporti di lavoro relativi alla X. e i coniugi L. G. e M. A. concorrenti nel reato di estorsione contestato sub B. per i rapporti di lavori relativi alla Y.. Precisavano che, invece, la coppia L. G. e M. A. non doveva rispondere del reato di estorsione loro ascritto al capo A., quali presunti soci della ditta W. di Cagliari, non risultando che alcuna delle parti offese avesse lamentato alcunché relativamente ai rapporti di lavoro eventualmente intercorsi con l'indicata ditta cagliaritana.1.2. Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione L. G. e M. A., per mezzo del loro difensore, nonché L. M. di persona.1.2.1. Il difensore di L. G. e M. A. deduce:- violazione dell'art. 606 lett. b. c.p.p. con riferimento all'art. 629 c.p.; secondo la difesa la vicenda all'esame costituirebbe espressione del non eccezionale fenomeno del lavoro nero, ma non integrerebbe gli estremi dell'estorsione, giacché la violazione delle norme collettive risultava concordata tra le parti sin dall'origine, senza ricorso ad alcuna violenza;- violazione dell’art. 606 lett. e. c.p.p. con riferimento all'art. 629 c.p. e agli artt. 1427-1434-1435 c.c. - mancanza di motivazione; secondo la difesa la Corte di appello non avrebbe motivato sul punto del difetto di costrizione delle dipendenti nella determinazione dell'accordo contrattuale; inoltre non avrebbe tenuto conto dell'estraneità alla gestione di L. G..1.2.2. L. M. deduce:- violazione di legge e vizio di motivazione e, in particolare, violazione degli artt. 192 e 194 c.p.p. e 629 c.p.. Secondo il ricorrente la sentenza impugnata avrebbe omesso di differenziare le posizioni degli imputati, nonché di effettuare uno scrutinio approfondito ai fini della credibilità oggettiva e soggettiva di testimoni che erano portatori di interessi confliggenti con quelli dell'imputato; inoltre avrebbe equivocato i significati di contrattazione e accordo, equiparando l'assenza di trattative con il costringimento morale; avrebbe, quindi, individuato la prova di tale costringimento nel mero condizionamento ambientale, che non potrebbe ascriversi al datore di lavoro; infine avrebbe confuso i piani di indagine, omettendo di considerare che l'ingiustizia della pretesa da sola non offre alcun elemento per ravvisare l'estorsione e neppure la personalità sopraffattrice del datore di lavoro, se non si dimostra che non sono stati posti in essere atti impeditivi dell'esercizio dei diritti. In altri termini - a parere del ricorrente - andrebbe distinta la situazione del datore di lavoro che rende impossibile o particolarmente gravoso l'esercizio del diritto da quella verificata in esame, in cui i Giudici di appello hanno accertato che due lavoratrici dipendenti hanno ottenuto il riconoscimento dei loro diritti, ma che il L. non ha pagato: nel primo caso - si legge testualmente nel ricorso - «poteva parlarsi di estorsione, nel secondo, invece, di prigione per debiti».2.1. I due ricorsi, articolandosi sotto il duplice profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione, si incentrano su una comune e principale doglianza: entrambi i ricorrenti lamentano, infatti, che la Corte territoriale non abbia adeguatamente apprezzato la circostanza che la violazione delle normativa a tutela del lavoratore aveva costituito, nello specifico, il risultato di un accordo tra le parti, di tal che l'accordo, seppure illecito e nullo sotto il profilo privatistico, non integrerebbe un fatto rilevante agli effetti dell’art. 629 c.p., per difetto del requisito della minaccia.Ciò posto e considerato che la sostanziale identità delle censure consente una trattazione per buona parte unitaria, il nodo centrale della decisione si rivela quello della qualificazione giuridica della condotta ascritta agli imputati; a tal fine occorre verificare se la ricostruzione del fatto storico sia suscettibile di censura sotto il profilo logico e, quindi, accertare se la fattispecie sia stata correttamente inquadrata nel paradigma dell'art. 629 c.p..In punto di diritto va premesso che l'oggetto della tutela giuridica nel reato di estorsione è duplice, nel senso che la norma persegue l'interesse pubblico all'inviolabilità del patrimonio e, nel contempo, alla libertà di autodeterminazione. L’evento finale della disposizione patrimoniale lesiva del patrimonio proviene, infatti, dalla stessa vittima ed è il risultato di una situazione di costrizione determinata dalla violenza o dalla minaccia del soggetto agente. In particolare il potere di autodeterminazione della vittima non è completamente annullato, ma è, tuttavia, limitato in maniera considerevole: in altri termini il soggetto passivo dell'estorsione è posto nell'alternativa di far conseguire all'agente il vantaggio economico voluto ovvero di subire un pregiudizio diretto e immediato (tamen coactus, voluit).In questa prospettiva anche lo strumentale uso di mezzi leciti e di azioni astrattamente consentite può assumere un significato ricattatorio e genericamente estorsivo, quando lo scopo mediato sia quello di coartare l'altrui volontà; in tal caso l'ingiustizia del proposito rende necessariamente ingiusta la minaccia di danno rivolta alla vittima e il male minacciato, giusto obiettivamente diventa ingiusto per il fine cui è diretto (cfr. Cass. pen. Sez. II 17 ottobre 1973, n. 877). Allo stesso modo la prospettazione di un male ingiusto può integrare il delitto di estorsione, pur quando si persegua un giusto profitto e il negozio concluso a seguito di essa si riveli addirittura vantaggioso per il soggetto destinatario della minaccia (cfr. Cass. pen. Sez. II, 5 marzo/28 aprile 1992 n. 1071). Ciò in quanto la nota pregnante del delitto di estorsione consiste nel mettere la persona violentata o minacciata in condizioni di tale soggezione e dipendenza da non consentirle, senza un apprezzabile sacrificio della sua autonomia decisionale, alternative meno drastiche di quelle alle quali la stessa si considera costretta (cfì-. Cass. pen. Sez. II, 7 novembre 2000, n. 13043).Si spiega cosi perché la «minaccia», da cui consegue la coazione della p.o., possa presentarsi in molteplici forme ed essere esplicita o larvata, scritta o orale, determinata o indeterminata, e finanche assumere la forma di esortazioni e di consigli. Ciò che rileva, al di là delle forme esteriori della condotta, è, infatti, il proposito perseguito dal soggetto agente, inteso a perseguire un ingiusto profitto con altrui danno, nonché l'idoneità del mezzo adoperato alla coartazione della capacità di autodeterminazione del soggetto agente.Ciò precisato in via di principio, osserva il Collegio che le censure dei ricorrenti si rivelano generiche e, comunque, afferenti a valutazione riservate al Giudice del merito per quanto attiene alla ricostruzione dei fatti storici e all'interpretazione del materiale probatorio, mentre, sotto il profilo della violazione di legge, risultano infondate, avendo la Corte territoriale fatto corretta applicazione del disposto dell'art. 629 c.p..Merita puntualizzare che - contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente L. M. - i riscontri fattuali dell'accusa non sono stati attinti dalle sole deposizioni di «persone (pretesamente) portatrici di interessi confliggenti con quelli dell'imputato», di cui non sarebbe stata valutata l'attendibilità, ma risultano desunti da un complesso di elementi di prova orale e documentale, ivi inclusi i risultati degli accertamenti effettuati dall'Ispettorato del lavoro, confermati in sede di deposizioni testimoniali; e ciò a prescindere dalla considerazione che il vaglio di attendibilità è imposto esclusivamente con riguardo alle dichiarazioni provenienti da coimputati o da imputati in procedimento connesso e non dalle parti offese.Si tratta, del resto, degli stessi elementi probatori già assunti dal Tribunale a conferma della materialità dei fatti enunciati nei capi dì imputazione, sebbene i Giudici di primo grado abbiano finito per escludere l'integrazione del reato di cui all’art. 629 c.p., sul presupposto, qui riaffermato dai ricorrenti, che l'alternativa (tra il licenziamento illegittimo e l'accettazione del trattamento retributivo deteriore e, in genere, delle condizioni di lavoro contrarie alla legge e ai contratti collettivi) fosse stata preventivamente prospettata alle lavoratrici dipendenti e avesse, quindi, costituito oggetto dell'accordo contrattuale tra le parti.In proposito è il caso di fare una precisazione, trattandosi di un punto cruciale della vicenda, su cui - segnatamente da parte del L. M. - vengono formulati specifici rilievi. Invero la Corte territoriale ha dichiarato di dissentire non solo dalle conclusioni in diritto, ma anche dalle premesse in fatto assunte dal Tribunale (cfr. pag. 6 e pag. 8), precisando di ritenere sufficientemente provata l'esistenza di un «accordo contrattuale» solo per la dipendente C. (la quale aveva riferito dell'esistenza di «patti» con la M. e di condizioni di lavoro chiarite sin dall'inizio) e forse anche per la C. (la quale aveva dichiarato che «all'atto dell'assunzione era consapevole» delle condizioni del rapporto). A tal riguardo il L. M. lamenta che i Giudici di appello abbiano confuso i due concetti di «accordo contrattuale» e «trattative», senza considerare che «la trattativa o libera contrattazione non è un presupposto necessario per l'instaurarsi di un rapporto di lavoro dipendente» (così a pag. 3 del ricorso).Orbene ritiene il Collegio che l'osservazione del ricorrente, seppure fa leva su un'indubbia improprietà espressiva, non scalfisce la valenza motivazionale della decisione impugnata, la quale si fonda sul principale rilievo dell'irrilevanza del formale ricorso al contratto, allorché questo risulta strumentalizzato al perseguimento di un ingiusto profitto. Invero - contrariamente a quanto dedotto dai ricorrenti - nella sentenza impugnata viene tracciato, in maniera logica ed esaustiva, un quadro globale di timore delle dipendenti, in ragione della particolare situazione del mercato del lavoro (in cui l'offerta superava di gran lunga domanda) e in presenza di comportamenti costantemente prevaricatori dei datori di lavoro, sì da rendere evidente che anche nel caso (della C. e, forse, della C.) in cui sin dal momento di instaurazione del rapporto la lavoratrice aveva «accettato» di non rivendicare i propri diritti, siffatta accettazione non fu libera, ma condizionata dall'assenza di possibilità alternative di lavoro.In tal modo la distinzione che la Corte territoriale ha operato tra la posizione delle lavoratrici C. e C., per le quali le condizioni di lavoro furono «chiare» sin dall'inizio e tutte le altre dipendenti che, invece, «chiedevano la regolarizzazione in costanza del rapporto di lavoro» (pag. 6 della sentenza impugnata) si rivela di secondario rilievo nell'economia della motivazione e non vale certo ad affermare l'essenzialità delle «trattative» per la stipula del contratto di lavoro, risultando, piuttosto, funzionale alla considerazione che - pur quando vi fu un'originaria «rinuncia» delle lavoratrici alla pretesa di rivendicare i propri diritti - non per questo risultavano esclusi gli estremi dell'estorsione.Valga considerare che questa Corte è costante nel ritenere che un accordo contrattuale tra datore di lavoro e dipendente, nel senso dell'accettazione da parte di quest'ultimo di percepire una paga inferiore ai minimi retributivi o non parametrata alle effettive ore lavorative, non esclude, di per sé, la sussistenza dei presupposti dell'estorsione mediante minaccia, in quanto anche uno strumento teoricamente legittimo può essere usato per scopi diversi da quelli per cui e apprestato e può integrare, al di là della mera apparenza, una minaccia, ingiusta, perché è ingiusto il fine a cui tende, e idonea a condizionare la volontà del soggetto passivo, interessato ad assicurarsi comunque una possibilità di lavoro, altrimenti esclusa per le generali condizioni ambientali o per le specifiche caratteristiche di un particolare settore di impiego della manodopera (ex plurimis Cass. pen., Sez. II, 24/01/2003, n. 3779; Cass. pen., Sez. I, 11/02/2002, n. 5426). È questione, poi, riservata al Giudice del merito valutare se la condotta dell'imputato sia stata posta in essere nella sola prospettiva di conseguire un ingiusto profitto con altrui danno, attraverso un comportamento che, al di là dell'aspetto formale dell'accordo contrattuale, ponga concretamente la vittima in uno stato di soggezione, ravvisabile nella alternativa di accedere all'ingiusta richiesta dell'agente o di subire un più grave pregiudizio, anche se non esplicitamente prospettato, quale l'assenza di altre possibilità occupazionali.Orbene, nelle vicende all'esame, i Giudici di merito hanno elencato tali e tanti comportamenti prevaricatori dei datori di lavoro in costante spregio dei diritti delle lavoratrici (si pensi non solo all'erogazione di retribuzioni inferiori ai minimi sindacali e alla correlativa pretesa di far firmare prospetti-paga per importi superiori a quelli corrisposti, ma anche all'assenza di copertura assicurativa, alla mancata concessione delle ferie, alla prestazione di lavoro straordinario non retribuito ecc.) da rendere evidente, con la stessa eloquenza dei fatti, da un lato, che gli imputati, al di là del ricorso ad esplicite minacce, si sono costantemente avvalsi della situazione del mercato del lavoro ad essi particolarmente favorevole e, dall'altro che il potere di autodeterminazione delle lavoratrici è stato compromesso dalla minaccia larvata, ma non per questo meno grave e immanente, di avvalersi di siffatta situazione. In tale contesto si rivelano infondate le deduzioni dei ricorrenti - ai limiti del merito - in ordine all'esistenza di un accordo contrattuale: invero ciò che rileva agli effetti dell’art. 629 c.p. è che l'«accordo» non fii raggiunto liberamente, ma (nella descritta situazione) estorto.Nel complesso la decisione impugnata trova sostegno in un solido apparato argomentativo, giuridicamente corretto e immune da palesi vizi logici. Inoltre, le eventuali minime incongruenze sono ininfluenti, una volta che le deduzioni difensive, anche se non compiutamente esaminate, siano tuttavia incompatibili con la decisione impugnata.2.2. Per la parte in cui sollecitano specifiche questioni i ricorsi richiedono alcune osservazioni aggiuntive.Innanzitutto - rettificando la motivazione dei Giudici di appello, nel punto in cui hanno focalizzato l'attenzione sull'inadempimento del L. M., nonostante fosse rimasto soccombente nei giudizi intentati dalle dipendenti C. e F. - occorre dire che la circostanza che le dipendenti potessero agire innanzi al Giudice del lavoro non esclude, ma anzi conferma l'ingiustizia della pretesa; mentre il fatto che il L. sia rimasto inadempiente alle obbligazioni di pagamento accertate nel processo del lavoro, attiene all'aspetto risarcitorio e/o ripristinatorio. Non si tratta, qui, di evocare (per dirla con il ricorrente) «la prigione per debiti», ritenendosi inconferenti, agli effetti che ci occupano, le ragioni del mancato pagamento, quanto, piuttosto, di rimarcare che l'elemento oggettivo dell'estorsione, nella duplice valenza sopra precisata, è integrato dal fatto stesso del condizionamento della volontà delle dipendenti, particolarmente interessate ad assicurarsi una possibilità lavorativa altrimenti esclusa.2.3. Per quanto riguarda, poi, la specifica posizione del L. G. si osserva che i Giudici di appello, pur dando atto che «le redini della situazione» erano in mano a M. A., hanno individuato una serie di elementi di fatto (le modeste dimensioni dell'azienda, il rapporto di coniugio tra i due coimputati del medesimo reato, l'atteggiamento ostruzionistico tenuto da entrambi nel corso della visita ispettiva) univocamente deponenti per una gestione famigliare dell'azienda e, correlativamente, per un ruolo attivo del ricorrente nella consumazione dell'estorsione. Si tratta di elementi di fatto di sicuro valore sintomatico, non elisi o efficacemente contrastati da elementi di segno opposto, coerentemente e congruamente valoR. dai Giudici del merito in ossequio alla norma generale espressa dall'art. 192, co. l c.p.p., che è quella del libero convincimento, inteso come libertà di valutare gli elementi probatori, con il limite, qui rispettato, di dare conto dei criteri adottati.2.4. Infine, per quanto riguarda la prescrizione eccepita in udienza dalla difesa di L. M., si osserva che il reato attribuito all'imputato è stata contestato in continuazione dal 1983 al 1993 (capo A.); mentre i fatti attribuiti ai coniugi L. M. e M. A. e riconosciuti in continuazione si collocano negli anni dal 1983 sino a giugno 1994. Ciò posto e precisato che alla fattispecie si applica il «vecchio» testo degli artt. 157 e 160 c.p., deve osservarsi che non è ancora decorso il termine di anni quindici di prescrizione.In definitiva per la prevalenza delle ragioni di infondatezza su quelle di inammissibilità, i ricorsi vanno rigettati con i consequenziali provvedimenti in ordine alle spese processuali.2.5. Resta da provvedere alla rettifica di un errore materiale evidenziato in udienza dal P.G. presso questa Suprema Corte. Invero dal complessivo tenore della motivazione risulta chiaro che il reato di estorsione di cui sono stati riconosciuti responsabili L. G. e M. A. è quello di cui al capo B., mentre il L. M. è stato dichiarato responsabile del reato di estorsione allo stesso contestato al capo A.; inoltre la puntualizzazione contenuta a pag. 9 (laddove si legge: «Ovviamente la coppia L.-M. non deve rispondere del reato loro ascritto al capo A., quali presunti soci della ditta W. di Cagliari ...») rende chiaro che i Giudici di appello hanno confermato in parte qua la sentenza di assoluzione emessa in prime cure: conferma (parziale) di cui non è dato atto in dispositivo. Ai sensi dell'art. 130 co. 1 c.p.p. occorre provvedere in questa sede alla rettifica dell'errore.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali. Corregge il dispositivo della sentenza impugnata nel senso che dopo le parole «L. G., L. M. e M. A.» si aggiungano le parole «rispettivamente il primo e la terza per il reato di cui al capo B. e il secondo per il reato di cui al capo A.» e dopo le parole «spese del doppio grado» si aggiungano le parole «CoArnoldo Pazzianferma nel resto».

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